Benvenuti. Non esistono quasi limiti di tempo e di spazio nella dimensione dei proverbi, tanto vasta ne è la diffusione nel tempo e nello spazio. Da tempo immemorabile l'uomo fa uso di proverbi, sia nella tradizione orale come in quella scritta. Spesso è assai difficile risalire all'origine di un proverbio e stabilire se esso è transitato dalla tradizione orale alla letteratura o viceversa, se è di origine colta o popolare. Anche la linea di demarcazione tra proverbi, detti, motti, sentenze, aforismi, è assai sottile e forse non è così importante come si crede definire l'origine di un proverbio o di un aforisma quanto piuttosto risalire alle motivazioni che ne hanno determinato sia la nascita che l'uso più o meno frequente.
Della mia passione e delle mie ricerche sull'argomento e non solo su questo, cercherò di scrivere e divagare ringraziando anticipatamente quanti vorranno interagire e offrire spunti per sviluppare il tema col proprio personale e gradito contributo.
I commenti sono ovviamente graditi. Per leggerli cliccate sul titolo dell'articolo(post) di vostro interesse. Per scrivere(postare,pubblicare) un commento relativo all'articolo cliccate sulla voce commenti in calce al medesimo. Per un messaggio generico o un saluto al volo firmate il libro degli ospiti (guest book) dove sarete benvenuti. Buona lettura
venerdì 13 febbraio 2009
La spina che non ti punge è morbida come seta
Non di rado si sente dire "Io mi sarei comportato diversamente" , ma quasi sempre non si è mai vissuta l'esperienza della quale è vittima chi è fatto oggetto delle nostre pretestuose e presuntuose lezioni di etica.
sabato 17 gennaio 2009
Efemere: tra aforismi e wellerismi
Queste efemere, nel sottotitolo definite anche aforismi apocrifi, appartengono, come i proverbi, gli aforismi veri e propri ed i wellerismi, alle forme letterarie "brevi".
Sia Montalto, nella
nota introduttiva ,
che la Antolisei,
nella recensione , apparentano le efemere ai wellerismi.
Partendo dalla raccolta di Sartorelli, cercherò di commentarle e di trasformarne la struttura in wellerismi, in un caso mantenondone intatto, o quasi, il significato, in un altro modificandolo.
"Perché no? - Carlo F., 21 anni - Biglietto di addio, Palermo."
"Volevo una vita senza se - Antonio S. - Suicida, Milano, 1964"
Il primo messaggio si commenta da se, il secondo, pur non chiarendo del tutto i motivi del suicidio, si presta ad una qualche considerazione, spero non peregrina.
Se non altro il suicidio permette di scegliere come quando e dove concludere la propria esistenza terrena; si può dire che rappresenta uno dei rarissimi casi nei quali il tempo, il luogo e il come di un evento possono essere oggetto di una scelta più o meno oculata. Ma si può veramente dire che, almeno nel secondo caso, il suicida abbia raggiunto il suo obiettivo?
Certamente ha eliminato dalla sua vita tutti i se che gli procuravano angoscia, ma insieme ai se ha eliminato la propria vita; ha quindi eliminato i se, ma anche sè.
Obiettivo quindi fallito. Questo se ipotizziamo che non esista altra vita oltre quella terrena; ma se ammettiamo una vita ultraterrena il discorso cambia, poiché il suicida trasforma la propria vita senza annientarla, ma il fallimento più grande è che i se non solo non vengono eliminati, ma se ne aggiunge uno nuovo ancora più angosciante, eterno ed irrisolvibile: se avessi scelto di continuare a vivere!
Trasformato in wellerismo potrebbe presentarsi così:
"Volevo una vita senza se, come lasciò scritto un giovane suicida"
La terza efemera:
"A morte l'aggettivo possessivo!
Roberto "Fuego" Gamilo, Rivoluzionario cubano.
Subito modificato in wellerismo, alterandone in qualche modo il contenuto ed in parte confutandolo.:
"Sostituiamo con nostro l'aggettivo possessivo mio , come disse un rivoluzionario cubano.
L'efemera fa riferimento sicuramente ad un rivoluzionario cubano che intende abbattere il regime di Batista, fondato sul dominio opprimente della proprietà privata, sostituendolo con la sua abolizione. Ma un povero cubano che non aveva niente non avrebbe dovuto desiderare di fare una rivoluzione con lo scopo di continuare a non avere ugualmente niente. Quindi più appropriato sarebbe stato uno slogan che mettesse in risalto l'aspirazione alla libertà politica, alla partecipazione alla ricchezza con una equa distribuzione di essa fra tutto il popolo, abolendo i privilegi semi-feudali in vigore col regime di Batista.
Ma l'aggettivo possessivo "nostro" può nascondere insidie ancora più pericolose dell'aggettivo possessivo "mio", specie quando viene adoperato in senso restrittivo.
Se con "nostro" si intendono gli interessi, i valori, ed i disvalori di una ristretta cerchia di uomini e donne, i militari, il partito, la classe dominante, e non tutti i cittadini, l'oppressione coniugata con l'aggettivo "nostro" può diventare ancora più oppressiva di quella esercitata con l'aggettivo "mio".
Quindi ritengo positivo il mio wellerismo (scopiazzato), a condizione che "nostro" sia il più possibile inclusivo , e il più possibile partecipato .
(1) Marco Sartorelli, Efemere - Aforismi apocrifi, Novi Ligure AL, Edizioni Joker, 2004
mercoledì 31 dicembre 2008
Buon Anno
Capo d'anno e capo di mese, piglia la borsa e mettici il tornese.
Chi mangia l'uva per capodanno sta bene tutto l'anno.
Ogni anno nuovo che avanza, ha in gestazione una nuova speranza.
lunedì 22 dicembre 2008
Lontano dagli occhi, ma non lontano dal cuore.
A volte la nostalgia deriva dalla lontananza dai luoghi:
"Lontan da te non se po' sta'" (riferito a Napoli),
più spesso dalle persone amate.
"Lontano dagli occhi" è una delle canzoni più conosciute di Sergio Endrigo:
"Per uno che torna e ti porta una rosa
mille si sono scordati di te"
Predominerebbe quindi l'oblio sul ricordo, almeno quantitativamente, ma "quell'uno" che non si scorda riscatta tutti gli smemorati.
Anche Modugno si è cimentato col tema della lontananza, che "spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi".
Ma Endrigo non ha dedicato al tema dell'assenza una sola canzone:
"La tua assenza riempie i miei giorni di te" (canzone La tua assenza).
"La solitudine che tu mi hai regalato, io la coltivo come un fiore" (Canzone per te).
"Il mio pensiero ti seguirà sarò con te, ovunque sei, dove andrai" (Adesso si).
Quanto diverso è l'approccio al tema della sepaeazione rispetto alla tendenza dominante nella canzone italiana, secondo la quale il distacco dalla persona amata provocherebbe l'annientamento fisico e morale dell'amante. Alcuni esempi:
" ... di questa vita che mai, mai e poi mai potrà continuare se
mi allontani da te"
"Se tu non fossi qui, se tu non fossi qui
povero me!
Sarei una cosa morta, una candela spenta, un uomo inutile" (credo sia di Peppino Gagliardi.
Bella canzone, d'accordo, ma che lagna!
La distanza, in Endrigo, viene vissuta, si con melanconia, ma senza disperazione.
Forse pochi hanno colto elementi di ottimismo nelle canzoni di Endrigo, ma sono convinto che egli abbia efficacemente espresso che ciò che è avvenuto non è avvenuto invano, e che l'assenza e la distanza non derivano tanto dallo spazio e dal tempo che separano, ma principalmente da uno stato d'animo; si può essere cioè vicini con la mente e con l'anima, anche se la separazione è avvenuta in modo definitivo, come nel passaggio dal mondo della menzogna a quello che Giovanni Verga ha definito "mondo della verità".
Ciò è ancora più vero se chi si è allontanato da noi è vissuto cercando, e spesso trovando, la verità in questo mondo in cui predomina la falsità; e sono convinto che Endrigo la verità la abbia testimoniata nelle sue canzoni, e molto probabilmente anche nella vita.
domenica 16 novembre 2008
I poveri e i ricchi li fece il Signore
In modo dissimile sembrano pensarla due grandi guide religiose e precisamente san Paolo e Lutero.
" ... secondo il monito paolino e luterano a non uscire dal proprio stato sociale, a rispettare la varietà "naturale" dei ceti" (1)
San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi:
7, 17 "Ciascuno continui a vivere secondo la condizione che gli ha assegnato il Signore, così come Dio lo ha chiamato"
7, 21 "Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; ma anche se puoi diventare libero profitta piuttosto della tua condizione!"
Beati quindi i poveri che possono trarre profitto dai soprusi, dalle sofferenze inflitte dai loro padroni, conquistandosi così il Regno dei Cieli.
Ma se ognuno è padrone del proprio destino e può decidere di non ribellarsi e rimanere pazientemente nella condizione di schiavo o di povero perenne, non può, a mio parere, rimanere indifferente di fronte alla miseria e alla schiavitù dei propri simili, di fronte ai quali, come don Lorenzo Milani, deve esclamare "I care!", mi sta a cuore la tua salute dell'anima, ma non sono indifferente alla tua salute fisica e mentale.
Secondo il criterio paolino (se preso alla lettera e non nello spirito) san Francesco e don Milani sarebbero entrambi "eretici", perché il primo non ha voluto accettare la condizione di ricco che il Signore gli avrebbe assegnato, il secondo, oltre ad essere eretico, sarebbe anche un sobillatore ed un eversivo, nel tentativo di far progredire culturalmente e socialmente i propri parrocchiani, e non solo loro.
Si può comunque tentare una conciliazione tra i due differenti punti di vista:
Le parole di san Paolo si possono considerare più un consiglio che un divieto, alla luce del valore infinito della Salvezza rispetto al valore finito delle condizioni di vita terrena, che rimarranno sempre effimere nonostante i nostri sforzi per renderle stabili. Concentrare tutte le nostre risorse verso l'obiettivo del Paradiso è per san Paolo la strada maestra da seguire.
Allo stesso modo don Milani mette sempre al primo posto "l'obbedienza" a Dio rispetto all'obbedienza a Cesare, che sempre a Dio deve essere subordinata, e che anzi si deve disubbidire a Cesare se ciò che ci chiede è in contrasto con il volere di Dio.
La cura per il prossimo più bisognoso si inscrive nel messaggio evangelico di amore per il prossimo e quindi è perfettamente legittimo migliorare le proprie condizioni di vita, ancor più se non si entra in rotta di collisione con il volere di Dio.
La questione è comunque spinosa, come disse quello che coglieva le more.
(1) Claudio Magris, Danubio, Milano, RL Libri, 2005 (prima ediz. 1986)
capitolo II, paragr. 5 - L'idillio tedesco
mercoledì 16 luglio 2008
Introduzione ai Wellerismi
Dopo Archer Taylor (The proverb, Cambridge, 1931), il termine "wellerismo" fu adottato anche da Raffaele Corso in Italia (Wellerismi italiani, in Folklore, Fasc. III-IV, 1947-1948), da A. Van Gennep in Francia (Wellerismes francais, 1933-1934), ma non in Spagna, dove gli fu preferito "Dialogismos paremiologicos" e in Germania (Beispielssprichwort, Apologisches Sprichwort, Sagwort. (2)
From Wikipedia, the free encyclopedia:
Apologetic proverb
An apologetic proverb (also known as a joke-like form of proverb common to Dutch and known in English as wellerisms) typically consists of 3 parts: a proverb or saying, a speaker and (often humorous and literal) explanation.
Folklorist Archer Taylor notes that wellerisms are usually of obscure origin, difficult or near impossible to trace, and include sardonic humor.
"Everyone to his own liking, "the old woman said when she kissed her cow"
"This week is beginning splendidly, "said one who was to be hanged on Monday"
Da un altro sito in lingua inglese:
"I see, "said the blind man"
"It all comes back to me now, "said the Captain as he spat into the wind".
Per tornare alla lingua italiana:
Gaetano Perusini, Wellerismi friulani, in Rivista di Etnografia, A. 1948. N. 4,
distingue tra wellerismi proverbiali e wellerismi affabulativi:
"i primi contengono un concetto ben chiaro che non abbisogna di ulteriori commenti, i secondi invece non possono essere perfettamente intesi se non si conosce la favola o il racconto (o l'episodio vero o inventato che sia) che ha dato origine al modo di dire"
Alberto Mario Cirese, Wellerismi e micro-recits, in Lingua e stile, Anno 5, N. 2, agosto 1970, distingue a sua volta tra wellerismi veri e propri e proverbi welleristici, o wellerizzati (da non confondere con i wellerismi proverbiali del Perusini).
Il wellerismo:
"Disse Costanza: L'acqua vuole la pendenza
e l'amore la speranza"
viene catalogato dal Cirese come proverbio wellerizzato, in quanto non esiste alcuna contrapposizione tra chi parla e tra il detto o proverbio. Esiste solamente una assonanza (che Cirese chiama isofonia) fra Costanza, pendenza e speranza e null'altro. A Costanza si potrebbe sostituire qualunque altro nome di donna o di persona; si perderebbe forse soltanto l'isofonia.
Il wellerismo seguente:
"Quant'è bella la pulizia, disse il carbonaio"
presenta una contrapposizione tra "la pulizia" e "l'essere inevitabilmente sporco del carbonaio". Cambiando qui il mestiere del carbonaio con un lavoro "pulito" si perderebbe l'effetto contrasto.
Questo w. napoletano rende ancor meglio il concetto:
"Arrassate ca me tigne, dicette o graunaro"
- Allontanati che mi sporchi, disse il carbonaio -
Questi w. con protagonista il carbonaio possono quindi essere catalogati come w. veri e propri, o wellerismi proverbiali per dirla col Perusini; così come i seguenti:
"E va bene dicette donna Lena quanno vedette 'a figlia, 'a sora, 'a mamma, 'a gatta prena"
"E' un temporale benedetto, disse il contadino, e venne fulminato" (3)
Diverso è il caso del seguente w.
"Dicette l'avaro: serùgliame tutto!" (Ungimi tutto)
Siamo qui in presenza di un w. affabulativo, del quale non si comprende il significato senza qualche nota esplicativa. Il curatore, Antonio Rotondo (4) aggiunge infatti due righe per spiegarne l'origine.
Io tento di trasformare questo w. da affabulativo a proverbiale, aggiungendo all'interno dello stesso w. la parte affabulativa mancante:
"Ungimi tutto, come disse l'avaro al prete, venuto a somministrargli l'estrema unzione, quando seppe che era gratis"
Ho perso il colore dialettale ed il w. sembra essere troppo lungo, ma non bisogna assimilare il w. al proverbio tradizionale, caratterizzato dalla brevità.
Un'occhiata ai w. di Dickens vi farà rendere conto che la brevità non è una costante.
Il w. si presta molto bene ad essere attualizzato, riferendolo ad eventi ed a personaggi odierni o dell'immediato passato:
Ho provato a coniare tre w. e ve li presento:
"Ho portato l'Italia in Europa, come disse Romano Prodi, dopo aver fatto precipitare gli italiani nella miseria"
"Ho risanato i conti dell'Italia, come disse il ministro Padoa Schioppa, dopo aver dissestato quelli degli italiani"
"Sono entrato in politica per il bene comune, come disse Silvio Berlusconi, quando venne approvata l'ennesima legge ad personam"
Al di fuori dell'attualità:
"Il cliente ritorna sempre sul luogo del diletto, come disse l'incallito bevitore varcando la soglia della bettola"
variante un po' osè:
"Il cliente ritorna sempre sul luogo del diletto, come disse la Madama rivolta al consumato puttaniere"
Questo (questi) esempio è insieme calembour, parafrasi e w.
And, last but not least, un w. coniato da Riccardo Uccheddu:
"La morte di ogni nostro concittadino ci riempie di costernazione, ma ci aiuta anche a vivere, come disse, tutto compunto, un impresario di pompe funebri"
Ma non è ancora finita:
Se nella trasmissione orale dei w. si è costretti ad essere esaurienti, senza possibilità alcuna di allusioni o rimandi, diverso è il caso della "rete", dove il w. può essere enunciato, lasciando ad un link la funzione di svelarne il significato non pianamente comprensibile, ma che, come un rebus, permette di essere chiarito dopo una visitina al sito linkato.
Come esempio ricavo da un commento al sito amico Clear Nuance
il w.
"Purtroppo c'è chi male interpreta uno sguardo... e io ne approfitto, come disse un tale Rosario Chiàrchiaro"
Cliccando su Rosario Chiàrchiaro si apre la pagina web rivelatrice.
Buona scoperta a tutti!
(1) Charles Speroni, The Italian Wellerisms to the End of the Seventeenth Century, University of California Press, 1953, Introduction.
(2) liberamente tratto da C. Speroni, op. citata. Introduction
(3) Giovanni Tucci, Studi e ricerche sui wellerismi, in Rivista di Etnografia (1965-66).
(4) Antonio Rotondo, 'A vita è 'nu 'imbruòglio!, Sorrento, 1991, pag. 49
mercoledì 25 giugno 2008
Il proverbio propedeutico
Quasi tutti i proverbi e i modi di dire, tranne alcuni che sono commenti dell'autore, sono pensati dal protagonista e svolgono una funzione che potrebbe definirsi propedeutica, in quanto aiutano l'investigatore a meglio inquadrare le vicende apparentemente insolubili.
Il proverbio quindi come esercizio mentale per meglio riflettere, come introduzione ad altri pensieri più articolati.
- Buttare fumo negli occhi.
- Cavare un ragno dal buco
- Chi prima arriva meglio alloggia.
In Inghilterra - First come, first served.
- Chi va piano va sano e va lontano.
- Chi va via perde il posto all'osteria.
- Della vittoria tutti si arrogano i meriti, nella sconfitta a uno solo vengono imputati gli insuccessi
citazione liberamente tratta da "Vita di Agricola" di Tacito:
Iniquissima haec bellorum condicio est: prospera omnes sibi vindicant, adversa uni imputantur.
- Fare buon viso a cattiva sorte.
- La notte porta consiglio.
- Il tempo rimedia a tutto.
- Le disgrazie non vengono mai sole.
- Tentar non nuoce.
- Tirare i remi in barca.
(1) Marco Polillo, Testimone invisibile, Euroclub 1998
(prima edizione Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1997).
mercoledì 21 maggio 2008
Il proverbio "cosa nostra". Ovvero: il proverbio interdetto. Ovvero: caccia al proverbio.
Con "cosa nostra" si intende qui solo l'appartenenza a tale consolidata tribù, di "nuautri", insomma.
Il senso di appartenenza, la divertita (?) complicità instaurata con l'altrettanto divertito (?) consapevole lettore, viene introdotto da un narratore, manco a dirlo, siciliano:
"Queste lettere di Voltaire, uno leggendole pensa a quel nostro (leggi siciliano) proverbio che dice la sconoscenza del parentado (corsivo mio) che in una certa condizione (corsivo mio), in certe circostanze, una parte del nostro corpo (corsivo mio), spietatamente afferma"
"e spiegò agli altri che erano lettere che Voltaire aveva scritto a sua nipote. Sua eccellenza Lumia disse chiaro e tondo il proverbio (ma Sciascia no), il barone precisò che lo stesso termine, che nel proverbio indicava la condizione che veniva a travolgere le barriere del parentado, Voltaire usava, è in italiano"
Il proverbio interdetto dallo scrittore viene però suggerito con l'uso di perifrasi che lo rendono facilmente identificabile dai lettori più avveduti.
Per dare un piccolo aiuto, in questa poco entusiasmante caccia al proverbio, dico che è presente nel mio sito:
http://www.proverbiescrittori.it/
e, con piccole varianti, in uno dei due romanzi più noti di Gavino Ledda:
in Padre padrone (?)
o in Lingua di falce (?).
Ai contemporanei l'ardua ricerca.
(1) Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XVI
Il proverbio detto per "non dire"
In uno dei suoi romanzi, lo scrittore Giorgio Todde (1) ci presenta il capitano dei carabinieri Pescetto alle prese con due presunti testimoni da lui convocati. Costoro, anziché ricorrere alla collaudata strategia del silenzio, straparlano usando una valanga di proverbi, ad indicare che non avrebbero riferito nulla, anche se fossero stati a conoscenza di elementi utili alle indagini.
Lo sproloquio sostituisce il silenzio, il dire per non dire e per sottolineare che nulla si direbbe anche se si sapesse.
"Chi fa trenta non è detto che faccia trentuno"
"Non tutto può essere detto"
"Cosa di uno è cosa di nessuno, cosa di tre di tutto il mondo è"
"Ognuno rende conto della propria bisaccia"
"Chi non sa tacere non sa godere"
"Chi cerca le corna d'altri trova le proprie"
"La cosa cotta non ritorna cruda"
"Se ti feriscono le vacche, una ragione c'è"
"I balli di carnevale si piangono in quaresima"
"Chi male pensa peggio fa"
Il capitano Pescetto cade nel tranello tesogli e si lascia sfuggire anch'egli un proverbio:
"La giustizia acchiappa la lepre anche con il carro lento!"
I due interrogati continuano a sciorinare proverbi in risposta alle domande del capitano, incoraggiati dalla sua incauta compartecipazione.
"Rispettiamo i morti ma temiamo i vivi"
"Può accadere che anche l'erba fresca bruci"
"Chi non fa domande non sente bugie"
(1) Giorgio Todde, Lo stato delle anime, Nuoro, Il Maestrale, 2002
(Frassinelli, 2001)
capitolo 13 - pagg. 107-108-109
lunedì 7 aprile 2008
Meglio un morto in casa che un marchigiano fuori dalla porta.
Vicini o lontani che siano gli abitanti di altre nazioni, regioni, province, o addirittura località confinanti, forniscono spesso occasione, quasi sempre pretestuosa, di dileggio.
Questo aspetto si estende ben oltre il puro e semplice proverbio, coinvolge modi di dire che si diffondono in misura proporzionale alla gravità dell'ingiuria.
Qualche volta i proverbi sottolineano aspetti positivi, ma si tratta veramente di rarità, come mosche bianche.
Piemontesi falsi e cortesi
Il medico di Valenza, lunghe falde e poca scienza
La Spagna è una spugna
Uomo di Spagna ti fa sempre qualche magagna
Bando bolognese, dura trenta giorni meno un mese
Corsica, morsica
Genova, prende e non rende
Gente di confini o ladri o assassini
In Italia troppe feste, troppe teste, troppe tempeste
Napoletano largo di bocca e stretto di mano
Alcuni proverbi in lode:
La Lombardia è il giardino del mondo
Chi volta il culo a Milan lo volta al pan
Non per tutti i proverbi è possibile risalire alle origini che ne hanno determinato la nascita e i motivi della maggiore o minore diffusione nel tempo e nello spazio.
Del proverbio del titolo ho trovato una spiegazione convincente nella rete:
I marchigiani costituivano la numerosa schiera di esattori dello Stato della Chiesa, e quindi qualsiasi individuo in odore di "marchigianità" veniva sfuggito più della peste. Figuriamoci averlo fuori dalla porta per reclamare la riscossione di imposte alquanto esose.
Fuori dal periodo storico in cui è nato questo malevolo detto non ha più motivo di esistere, quindi se è lecito conservarne la memoria in quanto rispecchia un momento storico ben definito,
del tutto inappropriato sarebbe riproporlo al giorno d'oggi; ci troveremmo di fronte, se non proprio ad un abuso, ad un vero e proprio cattivo gusto.
Sono ben altri gli esosi esattori e ben altri i metodi di riscossione applicati al giorno d'oggi.
A tale proposito mi viene in mente una veloce barzelletta che mi hanno raccontato alcuni giorni orsono.
- In un negozio:
"Fermi tutti! Questa è una rapina!"
"Meno male! Pensavo che fossero gli agenti delle tasse"
domenica 23 marzo 2008
Pasqua
domenica 16 marzo 2008
L'uomo è cacciatore
Se l'uomo non dominava realmente sulla donna nemmeno quando questo predominio era codificato da leggi e da pesanti condizionamenti a sfavore delle donne, figuriamoci dopo che si è ottenuta una quasi parità formale, in seguito alla quale la supremazia della donna sull'uomo è divenuta ormai incontrastata.
Destava meraviglia il fatto che le giustificazioni sulla eccessiva intraprendenza sentimentale-amatoria dei maschi veniva spesso dalle donne, che infierivano sulle donne che venivano sedotte piuttosto che sul seduttore, forse per mettere in risalto le proprie qualità morali, legate principalmente alla propria verginità o fedeltà coniugale.
Il proverbio in oggetto, ad esempio, viene pronunciato due volte in Mastro don Gesualdo, da una donna, la baronessa Rubiera, per giustificare il proprio figlio seduttore, riversando tutta la responsabilità su Bianca Trao.
"L'uomo è cacciatore, si sa! ..." Parte prima cap II
L'aggiunta di "si sa!" tende a codificare come assioma la colpa esclusiva della donna.
Procedimento analogo nei Malavoglia (cap X, 137, in cui il proverbio viene enunciato da una donna, donna Rosolina, a giustificare l'insistente corteggiamento di don Michele nei confronti della più piccola delle sorelle "Malavoglia".
Credereste che in pieno Ottocento, invece, c'era un giorno interamente "consacrato" alla caccia dell'uomo da parte della donna, e ciò non avveniva a Stoccolma, ma nella ben poco svedese Catania?
Ne riferisce Giovanni Verga nella novella "La coda del diavolo":
"A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c'è la festa di Sant'Agata, - gran veglione di cui tutta la città è il teatro - nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d'intrigare amici e conoscenti ... senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso. Questo si chiama il diritto di 'ntuppatedda.

A spiegare l'origine storica di tale usanza un saggio della Prof.ssa Carmelina Naselli (1894-1971): "Le donne nella festa di Sant'Agata a Catania, ossia Delle 'ntuppateddi" (1952).
Approfondendo il saggio della Naselli, il Prof. Carmelo Ciccia nel saggio "Il mondo popolare di Giovanni Verga ci fornisce una descrizione abbastanza dettagliata di tale usanza:
" ... 'intuppateddi (specie di chiocciole che hanno l'uscita tappata da un velo), traducibile in italiano con imbacuccate. Usanza per la quale le donne catanesi in occasione della festa di Sant'Agata (5 febbraio) si mascheravano lasciando visibile solo un occhio e andavano per le strade con facoltà di accompagnarsi in incognito a qualsiasi uomo gradito"
L'uomo da cacciatore a preda, con una sorprendente inversione dei ruoli.
Successivamente l'usanza, abbandonata a Catania, proseguì nel comune di Paternò, in occasione del Carnevale.
Molte presunte donne, si dice, erano in realtà omosex, provocando, a volte, una vera e propria "inversione" definitiva del malcapitato maschio cacciatore-cacciato.
lunedì 11 febbraio 2008
Equa diseguaglianza
Con questo insolito ossimoro intendeva esprimere il suo proposito di conciliare lo sviluppo dell’economia e della società senza però creare diseguaglianze economiche e sociali che avrebbero determinato delle fratture insanabili all’interno del mondo del lavoro e della società intera, tali da creare dei veri e propri mondi incomunicabili.
Differenze di retribuzione si, quindi, ma non di portata tale da creare divisioni all’interno del mondo del lavoro dipendente, nella popolazione attiva e in quella priva di occupazione, per scelta o difficoltà di entrare nel mercato del lavoro, o per condizione anagrafica o impedimenti dovuti a condizioni precarie di salute.
Ruffolo sosteneva che non c’era peggiore diseguaglianza di quella che derivava da una indiscriminata uguaglianza, che metteva sullo stesso piano condizioni socio-economiche, capacità professionali, condizioni assai difformi di malessere e comunque di disagio.
Dare la medesima retribuzione per lavori assai differenti dal punto di vista qualitativo e di produttività, di differenti capacità, avrebbe secondo Ruffolo, rappresentato una palese forma di ingiustizia, secondo il principio che a ciascuno deve essere dato secondo le sue capacità. Le differenze di retribuzioni secondo le proprie capacità non devono però creare abissali distanze di condizioni economiche e sociali tali da generare due mondi antagonisti. Così devono esserci differentze di retribuzione tra lavori che richiedono modeste conoscenze e poca o alcuna formazione professionale e lavori che invece sono stati preceduti da anni di studio e di formazione post-scolastica.
Altrettanto ingiusto sarebbe far durare la permanenza al lavoro allo stesso modo per lavori particolarmente ed oltremodo usuranti nella stessa misura rispetto ad impieghi che lo sono molto meno. Si può a tal proposito fare riferimento al lavoro in fabbrica, con turni disagevoli, ma anche ad altri lavori particolarmente stressanti.
Non bisogna poi dimenticare il carico di famiglia: nulla di più ingiusto di una retribuzione uguale o con minime differenze tra chi ha carico numeroso di famiglia e chi non lo ha. L’introduzione degli assegni familiari ha risolto in minima parte il pesante squilibrio tra il reddito pro capite di una famiglia con prole inoccupata e quello ad esempio di due coniugi occupati senza prole. Non credo di esagerare nel sostenere che tra due coniugi occupati senza figli e una famiglia sorretta solo da uno stipendio con coniuge e due figli a carico, nonostante gli assegni familiari, esiste un abisso retributivo forse superiore a quello tra una presunta famiglia benestante rispetto ad una relativamente bisognosa. Quindi per ottenere quella equa diseguaglianza, caldeggiata da Ruffolo, occorre differenziare sostanzialmente i redditi, attraverso tagli fiscali o altri provvedimenti ad hoc, tra famiglie in base alle persone a carico.
Valorizzare quindi le capacità professionali senza mortificare le necessità familiari.
Rispetto al periodo nel quale Ruffolo sosteneva la sua tesi, le diseguaglianze dal punto di vista familiare si sono alquanto accorciate, determinando una grave ingiustizia sociale nelle capacità di spesa delle famiglie numerose.
Può sembrare paradossale ma una effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini può essere ottenuta solo con una oculata diseguaglianza, che dia a ciascun cittadino pari opportunità di crescita sociale e culturale.
Ho lasciato per ultima la questione territoriale. Per decenni si è giustamente parlato di Questione Meridionale, per le minori opportunità di lavoro e di sviluppo civile nel Mezzogiorno d’Italia rispetto al Centro e al Settentrione, distacco dovuto a cause storiche e ad una assai minore sensibilità delle classi dominanti e dirigenti versi i problemi del Sud nel nostro paese. Oggi si parla con insistenza di una Questione Settentrionale, come se il Meridione avesse in qualche modo risolto o accorciato le diseguaglianze con il resto del paese. Si deve piuttosto parlare di una Questione Italia, nella quale la divisione internazionale del lavoro ed una globalizzazione senza regole hanno causato un impoverimento diffuso del nostro paese, che ha prodotto una maggiore accentuazione nel divario tra classi ricche e classi povere, che hanno subito un impoverimento non soltanto in termini relativi rispetto alle classi ricche, ma anche in termini assoluti, dato il minor potere d’acquisto di salari e stipendi.
Nell’impoverimento diffuso maggiormente soffrono le famiglie che vivono in territori dove più alto è il costo della vita, quindi la terza via da percorrere per una differenza retributiva equa è quella territoriale.
La Confindustria sostiene che questo obiettivo può essere raggiunto valorizzando la contrattazione aziendale e svuotando o quasi quella di categoria.
L’imprenditore Pasquale Pistorio, ex vicepresidente di Confindustria, esprime efficacemente tale punto di vista: “Non ha senso che un posto di lavoro al Sud debba costare come al Nord quando il costo della vita è inferiore. I sindacati sbagliano ad opporsi alle misure per diminuire il costo del lavoro in nome di un’errata idea del principio di uguaglianza”. (1)
Il ragionamento mi sembra ineccepibile per quanto riguarda la sostanza, ma estremamente pericoloso nel metodo e, se realizzato nelle forme proposte, assai peggiore del male che si vuole curare.
Affidare totalmente, o quasi, alla contrattazione aziendale i rinnovi contrattuali, causerebbe una rovinosa caduta del potere contrattuale dei lavoratori, che avrebbero bisogno piuttosto di un poderoso allargamento del fronte contrattuale, coinvolgendo lavoratori all’interno dell’Unione Europea ed anche ad di fuori di essa, per meglio far valere i propri diritti, di fronte ad una "imprenditoria" mondiale aggressiva e scarsamente sensibile ai problemi di sopravvivenza dei lavoratori e dei popoli.
Non secondaria sarebbe la catalogazione in differenti fasce salariali di lavoratori che svolgono medesimi lavori. Quindi a mio modesto parere occorre distinguere nettamente la parte professionale da quella territoriale, ma occorre farlo mantenendo ed anzi rafforzando la contrattazione di categoria. Le zone territoriali nelle quali si dovrebbe dividere il territorio in base al costo della vita dovrebbe essere fatta dagli stessi lavoratori, con rilevazioni indipendenti da quelle fatte dall’ISTAT, quasi mai attendibili.
Quindi una equa diseguaglianza, oculatamente determinata, può essere l’unica via a realizzare quella effettiva uguaglianza da molti evocata, ma da troppi elusa.
(1) Giovanni Russo, Il futuro è a Catania. Inchiesta su un'industria d'avanguardia in un'antica città del Sud, Milano, Sperling & Kupfer, 1997
capitolo 9: Le tre regole d'oro - intervista a Pasquale Pistorio.
sabato 12 gennaio 2008
Proverbi del Mare
- Rosso di sera, buon tempo si spera.
- Cielo rosso di mattina, brutto tempo si avvicina.
- Se l'alba verde a te apparirà, da questo lato il vento arriverà.
- Chiaro orizzonte a nord, sole calante, promessa di bel tempo al navigante.
- Se a calma notte il mare brontola a riva, al largo, o marinar,
la barca va giuliva.
- Allor che il vento contro il sole gira, non ti fidar, perché torna forte e spira.
- Vento da nord propizio al marinaro, se l'orizzonte scorgi netto e chiaro.
- Nubi ramate immote, ciel coperto, tempesta ti annunzian di certo.
- Cielo a pecorelle, donna imbellettata non duran nemmeno una giornata.
- Stelle troppo scintillanti, vento forte a te davanti.
- Stelle moltissime in ciel filanti, di vento e pioggia son segni parlanti.
- Stelle ingrandite e luminose assai, annuncian cambiamento ai marinai.
- Ciel senza nubi, pallide stelle, al marinaio dicono procelle.
- Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare e non aver paura.
- Se lampeggia ma più tuona, il vento vien da dove suona.
Da Emanuele Celesia, Linguaggio e proverbi marinareschi, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2003
- Un uccello di mare ne vale due di bosco.
- Popolo marinaro, popolo libero.
- Il sapere ha un piede in terra e l'altro in mare.
- Quando la barca va, ogni cojon la para.
- Chi non teme, pericola.
- Per mare non ci stanno taverne.
- Sui pesci, mesci.
- Nuvolette al mare, acqua alla montagna.
- Cielo a pecorelle, acqua a catinelle.
- Chi si fida di greco, non ha il cervello seco.
- Mare, fuoco e femmina, tre male cose.
- Dal mare, sale: e dalla donna, male.
- Donna, cavallo e barca, son di chi li cavalca.
- Chi piglia l'anguilla per la coda e la donna per la parola,
può dire di non tenere nulla.
- Le done, i cani e 'l bacallà, perché i sia boni i ghe vol ben pestà.
- Donna iraconda, mar senza sponda.
Dai Malavoglia di Verga.
- Senza pilota barca non cammina. (I, 5)
- Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura. (Padron 'N. I, 14)
- Il sole oggi si coricò insaccato – acqua o vento. (Padron Cipolla – II, 15)
- Quando il sole si corica insaccato si aspetta il vento di ponente. (P. 'N. II, 16)
- Le acciughe sentono il grecale ventiquattro ore prima di arrivare. (P. 'N. II, 31)
- Il mare è amaro, ed il marinaio muore in mare. (Mena – V, 61 / P. 'Ntoni – VI, 73)
- Chi è nato pesce il mare l'aspetta. (Padron 'Ntoni – VI, 68)
- I pesci grossi stanno sott'acqua durante la maretta. (Coro – VII, 81)
- I pesci del mare son destinati a chi se l'ha da mangiare. (Barbara – IX, 122)
- Il buon pilota si conosce alle burrasche. (Padron 'Ntoni – X, 126 e XI, 159)
- Mare bianco, scirocco in campo. (Padron 'Ntoni – X, 129)
- Mare crespo, vento fresco. (Padron 'Ntoni – X, 130)
- Quando la luna è rossa fa vento, quando è chiara vuol dire sereno,
quando è pallida, pioverà (Padron 'Ntoni – X, 131)
- Acqua di cielo, e sardelle alle reti. (Padron 'Ntoni – X, 132)
- Chi ha roba in mare non ha nulla. (La Vespa – X, 133)
- Per menare il remo bisogna che le cinque dita della mano
s'aiutino l'un l'altro. (Padron 'Ntoni - X, 150)
- Il buon pilota si prova alle burrasche. (Padron 'Ntoni – XI, 159)
- Il pesce puzza dalla testa. (Don Franco lo speziale – XII, 174)
- Per un pescatore si perde la barca. (Padron 'Ntoni – XIII, 176).
lunedì 24 dicembre 2007
sabato 15 dicembre 2007
Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei
E' il caso della parafrasi del proverbio “Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei”, che nel sito della Comunità fondata da Don Andrea Gallo, Comunità di San Benedetto , diventa:
“Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei”
Con motivazioni più o meno pretestuose, con elementi di valutazione più o meno meditati, si tende sempre ad escludere chi si ritiene non conforme alle proprie convinzioni, ai propri interessi, alla propria cultura, spesso incrostata da forti elementi di fondamentalismo più o meno mascherato.
Da escludere e/o da emarginare sono di volta in volta immigrati, nomadi,credenti in altre fedi religiose, che si ritengono, a volte anche con motivazioni non del tutto prive di fondamento, elementi di disturbo sociale. Si dovrebbe almeno cercare di comprendere le esigenze e le motivazioni che hanno indotto masse sempre crescenti di diseredati, rischiando spesso la vita, ad approdare nei nostri lidi, ritenendoli più sicuri, ma che hanno amaramente dovuto sperimentare “quanto sa di sale lo pane altrui”.
Oltre agli emarginati immigrati ci sono anche gli emarginati endogeni, persone che non hanno potuto o voluto affermarsi nel lavoro e nella società, e che vagano come disperati erranti da un marciapiede o da un ponte all'altro, in ricerca di qualche rifugio che possa alleviare il loro triste peregrinare o l'ancora più triste stanziamento in luoghi inospitali.
E proprio “Prete da marciapiede” si è autodefinito Don Andrea Gallo, che non ha mai rinunciato ad essere prete legato ai valori cristiani e cattolici in particolare e neanche al magistero tradizionale esercitato nei luoghi propri per il culto. A chi gli obiettava che il luoghi della religione sono le chiese e non le strade, Don Gallo rispondeva di “avere un piede in Chiesa e uno nella strada”.
Ed anche la strada ed i luoghi più inospitali sono stati i veri luoghi di culto delle personalità più significative, che hanno portato il Cristo a chi al Cristo non poteva o non voleva arrivare:
Madre Teresa di Calcutta, don Oreste Benzi, don Luigi Ciotti, don Virginio Colmegna, don Andrea Portas, che hanno percorso strade su strade per portare Cristo ai più emarginati, e, quando è stato possibile, condurre gli emarginati da Cristo.
domenica 25 novembre 2007
I proverbi nella pubblicità
Se da un lato gli slogan pubblicitari hanno in parte oscurato, se non l'uso almeno il proliferare di nuovi proverbi, dall'altro la stessa pubblicità ha fatto uso del proverbio manipolandolo spesso, ma non sempre, per le proprie esigenze commerciali, quando non ha creato essa stessa proverbi nuovi. Il rapporto osmotico fra questi due mezzi di comunicazione e di persuasione, anzi, per meglio dire di comunicazione finalizzata alla persuasione, ha prodotto spesso buoni frutti, arricchendo la lingua italiana di neologismi, di modi espressivi, spesso in conflitto con le regole grammaticali, ma che ci hanno restituito una lingua viva e dinamica.
Sotto certi aspetti gli slogan pubblicitari sono i neo-proverbi, poiché, aldilà della promozione del prodotto rimangono impressi in quello che viene definito come immaginario collettivo come messaggi indipendenti da ogni prodotto promosso, ma fedeli soltanto all'ispirazione che li ha generati, alla quale non sono del tutto estranei gli stimoli ed i condizionamenti che hanno favorito la creazione degli stessi proverbi. Slogan indirizzati al grande pubblico, ma che in una certa misura dal grande pubblico influenzati, cosa che in modo analogo è avvenuta per i proverbi, senza, ovviamente nulla togliere ai meriti dei creatori dei messaggi pubblicitari.
Uno dei modi nei quali si manifesta la interattività fra pubblicità e proverbi è la parafrasi:
Un proverbio viene modificato, a volte capovolgendone il significato, per rafforzare un messaggio pubblicitario. Ad esempio il proverbio “Donne al volante, pericolo costante”, denigratorio nei confronti delle donne che guidano, è stato sfruttato per una campagna promozionale di una Società di Assicurazioni Auto “Donne al volante ... premio calante” a sottolineare la maggiore prudenza delle donne alla guida di auto, con conseguente riduzione del premio assicurativo da loro pagato.
“Chi tardi arriva male alloggia” capovolto in “Chi tardi arriva ... risparmia” dalla pubblicità di una società che vende in internet pacchetti vacanze Last minute.
Il testo che utilizzo per corredare di esempi quanto sopra affermato è:
Mario Medici, La parola pubblicitaria, Venezia, Marsilio, 1988, seconda edizione
prima edizione 1986 – Sottotitolo – Due secoli di storia fra slogan, ritmi e wellerismi.
Capitolo – La pubblicità negli elenchi telefonici – paragrafo Gli anni sessanta
pag. 37 “E' meglio star bene in casa ... che belli in piazza”
(Per star bene in casa ... Magazzini Nannucci)
Il modo proverbiale “Anche l'occhio vuole la sua parte” viene adoperato per promuovere un produttore di occhiali:
Occhiali, lenti a contatto delle migliori marche. Nando Valli
paragrafo Le Pagine Gialle pag. 43
Pagine Gialle, Como 1977
a pag. 45
“Non rimandate a domani ciò che potete fare oggi”
Sceglete il corso diurno o serale adatto a voi. Istituto Dardi
Pagine Gialle, Milano, 1978-79
a pag. 46
“Chi cerca trova”
Sofim 80 – Punto d'incontro per acquisti e vendite immobiliari.
Pagine Gialle, Milano, 1983-84
Nella Gazzetta del Popolo, 8 dicembre 1941 un annuncio che si ispira al proverbio “A caval donato non si guarda in bocca”
pag. 93 Capitolo Due secoli di pubblicità. Ottocento, Novecento – paragr Il Novecento:
“Quest'anno il mio regalo lo scelgo io! In genere un regalo è il solito “Cavallo al quale non si deve guardare in bocca”; quest'anno invece al mio cavallo posso guardare tranquillo la dentatura .. compero una cassetta natalizia Martini che contiene sei bottiglie dello squisito spumante e vi troverò inoltre il buono acquisto ...”
Da un proverbio uno slogan:
“Il buon Martini rimpiazza i quattrini”
Cosa avessero poi tanto da festeggiare gli italiani in piena Seconda Guerra Mondiale!
a pag. 98
“Chi sta bene non cambia” - ricorda “Chi cambia la cosa vecchia per la nuova, peggio trova”
Lamarasoio Bic (1976)
a pag. 99
“Ogni uomo è se stesso” (1977)
Ermenegildo zegna. La nostra qualità è proverbiale.
a pag. 104
“Cent'anni da leone”
Ferro China Bisleri (1983)
parafrasi del motto: “Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”
“Motto tracciato da un anonimo soldato durante la guerra 1915-1918 sul muro di una casa abbattuta, presso il Piave”
Capitolo Lo slogan e la sua storia
pag. 120 “Chi beve birra campa cent'anni”
aggiornato poi in Chi beve birra ha sempre vent'anni, su segnalazione presumo di un centenario che
aveva sempre bevuto birra e desiderava continuare a berne.
Nella stessa pagina “Olio d'oliva ... bontà divina”
pag. 122
“A dolce peccato dolcissimo rimedio”
Magnesia S. Pellegrino (1933)
pag. 123
“Dove entra il sole non entra il medico” - Ricorda Una mela al giorno leva il medico di torno.
Aria luce e Fernet Branca. Un sorso di salute... Fernet Branca.
A proposito di Fernet Branca ricordate il neologismo Digestimola?
Capitolo Rime e ritmi. Senso ed emotività.
Pag. 132 “Il successo è bello soprattutto quando è completo”.
Sui modi di dire proverbiali, che collegano con il nome di un santo una data nella quale coincidono ricorrenza di una abitudine con onomastico relativo al santo, due esempi:
“A Milano fare san Michele significa (o significava) traslocare, in quanto tradizionalmente si disdiceva il contratto d'affitto e simili, o ci si spostava, appunto per la data di San Michele (29 settembre).
Altrove, in Italia settentrionale: fare San Martino (11 novembre)” pag. 56 paragr “L'Ottocento”
da qui il proverbio “A San Martino ogni mosto è vino"
domenica 21 ottobre 2007
Ius primae noctis
Del luogo dirò solo che si tratta della Sicilia: difficile tentare di scoprire la località o soltanto la provincia se concordiamo con la tesi espressa nell'antologia “Cento Sicilie” curata da Gesualdo Bufalino e Nunzio Zago: difficile distinguere tra cento possibilità. Della fonte dirò solo che si tratta di un sessantacinquenne analfabeta. La data tra le due guerre mondiali.
Il barone, quando la sposa era particolarmente bella e/o avvenente non si accontentava di una sola notte ed Alfio, l'entusiasta consorte della più bella ragazza dell'innominato paese, si rese presto amaramente conto di quanto vero fosse il detto “Chi piglia bellezze piglia corna”. Attese una atroce settimana dal giorno delle nozze e si presentò al castello del barone chiedendo la restituzione della sua dolce sposa. “Quando a Voscienza piacerà” fu suo malgrado costretto a proferire di fronte allo sdegnato rifiuto del barone. A giorni alterni si recava al castello portando una cesta di frutta. “Per il sostegno della mia dolce sposa” replicava alla superba reazione del barone che diceva di non aver bisogno dei doni di un pezzente. Alfio si sottoponeva pazientemente alla meticolosa perquisizione delle guardie del barone, in cerca di armi che potessero offendere il loro padrone.
Questo andirivieni durava da parecchi giorni, tutto il paese rideva, prima alle spalle poi direttamente in faccia ad Alfio, cornuto e contento, accompagnato per tutto il tragitto da insulti, fischi e pernacchie. Aveva anche preso l'abitudine di ringraziare il barone e di baciargli le mani a parole e di fatto. Le guardie avevano smesso di perquisirlo ritenendolo del tutto innocuo.
Alfio riusciva a sopportare le umiliazioni e il dolore per l'assenza della sua amata sposa pensando alla gioia che avrebbe provato nell'averla tutta per se, nella modesta casa che li avrebbe accolti per tutto il tempo che a Dio fosse piaciuto di concedere loro di vivere.
Il barone aveva perso il conto dei giorni, ma non Alfio, che si era anche pesantemente indebitato per onorare l'impegno di cui si era auto-assunto di portare vettovaglie per il sostegno della sua dolce sposa.
Era un giorno come tutti gli altri, il barone godeva, oltre che del piacere carnale di possedere a suo piacimento una bella e giovane ragazza, dell'insana soddisfazione di umiliare il povero contadino, lasciandolo nella incertezza più assoluta in merito alla data del rilascio della sua amata sposa. Come accadeva ad ogni incontro, Alfio si avvicinò al barone dicendo “Bacio le mani a Voscienza” e prendendo fra la sua mano sinistra quella sinistra del barone (non si porge la mano destra ad un inferiore); questa volta invece del consueto baciamani il barone ricevette sul collo la carezza di un “alliccasapuni” (lecca-sapone), cioè della coltellata inferta dal buon Alfio con tutta la rabbia che aveva in corpo e nell'anima. Il buon contadino osservava trionfante l'espressione sgomenta del barone, nella quale l'espressione di stupore era vinta solo dall'espressione di stupidità. In tutta tranquillità Alfio si appropriò dei due fucili da caccia lasciati incustoditi dai fiduciosi e ottusi servi del barone, i quali in quel momento, del tutto inconsapevoli di quanto era accaduto, erano immersi in una partita a briscola con contorno di cacio e vino.
In compagnia dell'amata sposa e dei due fucili il valoroso picciotto attraversò il paese sotto gli sguardi ammirati dei compaesani; non più frizzi e lazzi al suo passaggio, non più la “injuria” di “Affiu 'u babbu” , Alfio l'incapace, ripetuta con accanita monotonia, ma sguardi di ammirazione e grida di “Viva Affiu 'u spertu”, viva Alfio l'astuto, accompagnarono il glorioso cammino dei due sposi verso l'agognato talamo nuziale.
In quale momento il mite Alfio decise il suo piano non ci è dato sapere.
Scartata subito l'ipotesi di rivolgersi all'autorità costituita, costituita appunto a sostegno della classe dominante, non rimaneva che, in assenza di giustizia, farsi giustizia da se.
Io sono convinto che già al primo baciamani l'avesse già deciso, ricordando l'antico proverbio che usava ripetere suo nonno:
“Vasa 'dda manu ca vo' tagghiata” - Bacia quella mano che vuoi che sia tagliata.
Dove non puoi arrivare con la forza, adopera l'astuzia, la simulazione e la dissimulazione.
E c'è qualcuno che è convinto che i proverbi siano tutti stupidi ed inutili.
domenica 7 ottobre 2007
Distinguo: Tra o fra?
Pur permanendo nel dialetto-lingua toscano, codesto, ad esempio, non viene mai, o quasi mai, adoperato nella lingua scritta e parlata. Un libro ubicato vicino a chi ascoltava veniva preceduto da codesto, nella lingua figurata un'aspirazione, un'idea, un ideale appartenente a chi ascoltava, veniva accompagnato da codesto, come a sottolineare una estraneità, una presa di distanza; ad esempio “codesto tuo comunismo” o “codesto tuo fascismo”, riferiti ad interlocutori portatori di idee antagoniste alle proprie.
Le particelle “tra” e “fra” non sono sfuggite a tale nefasta omologazione. Ci si preoccupa solamente di evitare cacofonie del tipo “fra frati”, lasciando piena discrezione all'utente di usare l'una o l'altra particella.
Il linguista Aldo Gabrielli, compianto valente lessicografo, glottologo e letterato, bocciava come saccente pedanteria la pretesa di attribuire alle due particelle particolari significati, addirittura opposti.
Ho richiesto una consulenza in merito all'Accademia della Crusca, che pur rispondendomi cortesemente, non ha ritenuto la questione meritevole di essere trattata nel loro sito, dando ragione alla tesi del Gabrielli.
Eppure l'eccellente linguista Leo Pestelli in Parlare italiano, aveva sottolineato la ricchezza di sfumature che giustificava un uso corretto e ben differenziato delle due particelle.
Cerco di riassumere a memoria:
Fra deriva da infra,
tra da inter;
fra indica vicinanza, di luogo, nel tempo, comunanza di affetti,
tra indica lontananza, nel tempo e nello spazio, discordanza.
Si dirà quindi “Ci vediamo fra due ore”
“Tra moglie e marito non mettere il dito”
“Fra me e te sta nascendo un profondo sentimento”
Addirittura, senza aggiungere altro, si possono esprimere molto brevemente anche sentimenti profondi:
“Fra noi” fa intuire una forte comunanza di sentimenti e/o di interessi
“Tra noi” proprio il contrario.
Le due particelle si possono altresì utilizzare in modo criptato:
“Ci vediamo fra due ore” si può utilizzare quando si ha veramente volontà di rivedersi presto.
“Ci vediamo tra due ore” quando non si ha alcuna voglia o possibilità di rivedersi, e quindi le due ore possono diventare settimane o mesi, o addirittura mai.
Propendo nettamente per la tesi del Pestelli che mi piace riassumere con la parafrasi del proverbio:
“Questo o quello per me pari sono”
“Tra o fra per me pari non sono”
A proposito di grammatica mi viene in mente che se esiste una grammatica dei numeri (1), difficilmente può esistere una Matematica della grammatica; non sempre è infatti possibile applicare alla grammatica la proprietà commutativa, che nel caso della grammatica potrebbe così essere enunciata:
“Cambiando l'ordine fra sostantivo ed aggettivo il significato non cambia”
Come ha fatto notare un altro valente linguista, Cesare Marchi, non sempre
“Una buona donna” è “Una donna buona”
così come
“La Buona Società” raramente è “Una società buona”
(1) Giuliano Spirito, Grammatica dei numeri, Roma, Editori Riuniti, 1997
venerdì 5 ottobre 2007
Parola d'ordine
Nondimeno attraverso la pubblicità, le canzoni, il cinema e la letteratura vengono continuamente e copiosamente proposti, quasi sempre modificati, vecchi proverbi con significati nuovi.
Scherza coi fanti e lascia stare i santi
è stato riproposto da Dan Brown in Angeli e demoni:
Scherza coi santi e lascia stare i quanti
allo scopo di mettere in risalto come al culto dei santi si stia sempre di più sostituendo il culto della scienza.
Dal bolscevico “Chi non lavora non mangia”
Adriano Celentano ha tratto: “Chi non lavora non fa l'amore”.
“Chi si contenta gode”in Sergio Endrigo “Perché non dormi fratello” diventa: “Chi si contenta muore”
“Ogni regola ha la sua eccezione”
viene trasformato da A.C.D. Attraverso il suo S.H. in
“L'eccezione stravolge la regola”
dalla cantantessa Carmen Consoli in
“L'eccezione insidia la regola”
da Ennio Flaiano viene addirittura capovolto in
“Ogni eccezione ha la sua regola”
che ricorda la battuta del celebre Totò:
“Ogni limite ha la sua pazienza”parafrasi di
“Ogni pazienza ha un limite”.
La pubblicità sfrutta:
“Donna al volante, pericolo costante”
“Donna al volante, ... premio calante”
a sottolineare la minore incidenza degli incidenti causati dalle donne rispetto agli uomini.
Il solito irriducibile misogino obietterebbe che ciò accade perché le donne, che ne sanno una più del diavolo, riescono, più che diabolicamente, a trasferire le loro colpe sempre sugli uomini, e che quindi solo quando un incidente coinvolge due autisti donne, non possono evitare che la responsabilità venga loro attribuita.
Meno cervelloticamente ritengo che dipenda invece dal minor uso dell'auto da parte delle donne (non intendo dal numero di donne che guidano, ma dal minor numero di Km percorsi).
In concomitanza allo stravolgimento dei proverbi per adeguarli a nuovi scopi si sono altresì affermate nuove forme di conunicazione e di persuasione più o meno occulta:
Lo slogan
e le cosiddette parole d'ordine.
Durante la disputa tra neutralisti e interventisti, i socialisti italiani, nel tentativo di salvare almeno la faccia, coniarono il celebre:
“Né aderire, né sabotare”
Il fascismo trionfante:
“Credere! Obbedire! Combattere!
Proprio il fascismo utilizzò ampiamente l'uso delle parole d'ordine nelle “adunate oceaniche”, attraverso la radio, e soprattutto con le scritte sugli edifici:
“Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”
“Molti nemici, molto onore”
“L'aratro traccia il solco, la spada lo difende”
“Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se mi uccidono vendicatemi”
All'ingresso del campo di sterminio di Auschwitz campeggiava:
“Arbeit macht frei” - Il lavoro rende liberi
Nei cortei sessantottini si urlava:
“Lotta dura, senza paura!”
I postfascisti hanno coniato:
“Nè restaurare, né rinnegare”
che fa da pendant
al motto dei socialisti italiani.
I liberisti ammoniscono:
“Più mercato, meno Stato”
Comunione e Liberazione invoca:
“Più società, meno Stato”
Da più parti si plaude all'estinzione, o alla riduzione ai minimi termini, dello Stato.
Gli anarchici esultino.
Poco plausibile appare la duplice presenza di Stato e Società:
Più Stato (pur nelle sue articolazioni) e più Società.
o Più Società nello Stato.
Proporre oggi: Più Stato, più Società, più Credito e Commercio equo e solidale
sarebbe pura e semplice eresia, oltre che utopia.
Ebbene lo confesso: sono eretico ed utopista.
Se attribuiamo ai proverbi la funzione prescrittiva di comportamenti, di norme morali e civili da rispettare, ci rendiamo conto che il loro declino dipende semplicemente dal fatto che oggi esistono strumenti che li hanno soppiantati, come i mezzi di comunicazione di massa, che a volte li ripropongono per puro divertimento o per piegarli a nuovi obiettivi più o meno edificanti.
