Benvenuti. Non esistono quasi limiti di tempo e di spazio nella dimensione dei proverbi, tanto vasta ne è la diffusione nel tempo e nello spazio. Da tempo immemorabile l'uomo fa uso di proverbi, sia nella tradizione orale come in quella scritta. Spesso è assai difficile risalire all'origine di un proverbio e stabilire se esso è transitato dalla tradizione orale alla letteratura o viceversa, se è di origine colta o popolare. Anche la linea di demarcazione tra proverbi, detti, motti, sentenze, aforismi, è assai sottile e forse non è così importante come si crede definire l'origine di un proverbio o di un aforisma quanto piuttosto risalire alle motivazioni che ne hanno determinato sia la nascita che l'uso più o meno frequente.
Della mia passione e delle mie ricerche sull'argomento e non solo su questo, cercherò di scrivere e divagare ringraziando anticipatamente quanti vorranno interagire e offrire spunti per sviluppare il tema col proprio personale e gradito contributo.
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domenica 21 ottobre 2007
Ius primae noctis
Del luogo dirò solo che si tratta della Sicilia: difficile tentare di scoprire la località o soltanto la provincia se concordiamo con la tesi espressa nell'antologia “Cento Sicilie” curata da Gesualdo Bufalino e Nunzio Zago: difficile distinguere tra cento possibilità. Della fonte dirò solo che si tratta di un sessantacinquenne analfabeta. La data tra le due guerre mondiali.
Il barone, quando la sposa era particolarmente bella e/o avvenente non si accontentava di una sola notte ed Alfio, l'entusiasta consorte della più bella ragazza dell'innominato paese, si rese presto amaramente conto di quanto vero fosse il detto “Chi piglia bellezze piglia corna”. Attese una atroce settimana dal giorno delle nozze e si presentò al castello del barone chiedendo la restituzione della sua dolce sposa. “Quando a Voscienza piacerà” fu suo malgrado costretto a proferire di fronte allo sdegnato rifiuto del barone. A giorni alterni si recava al castello portando una cesta di frutta. “Per il sostegno della mia dolce sposa” replicava alla superba reazione del barone che diceva di non aver bisogno dei doni di un pezzente. Alfio si sottoponeva pazientemente alla meticolosa perquisizione delle guardie del barone, in cerca di armi che potessero offendere il loro padrone.
Questo andirivieni durava da parecchi giorni, tutto il paese rideva, prima alle spalle poi direttamente in faccia ad Alfio, cornuto e contento, accompagnato per tutto il tragitto da insulti, fischi e pernacchie. Aveva anche preso l'abitudine di ringraziare il barone e di baciargli le mani a parole e di fatto. Le guardie avevano smesso di perquisirlo ritenendolo del tutto innocuo.
Alfio riusciva a sopportare le umiliazioni e il dolore per l'assenza della sua amata sposa pensando alla gioia che avrebbe provato nell'averla tutta per se, nella modesta casa che li avrebbe accolti per tutto il tempo che a Dio fosse piaciuto di concedere loro di vivere.
Il barone aveva perso il conto dei giorni, ma non Alfio, che si era anche pesantemente indebitato per onorare l'impegno di cui si era auto-assunto di portare vettovaglie per il sostegno della sua dolce sposa.
Era un giorno come tutti gli altri, il barone godeva, oltre che del piacere carnale di possedere a suo piacimento una bella e giovane ragazza, dell'insana soddisfazione di umiliare il povero contadino, lasciandolo nella incertezza più assoluta in merito alla data del rilascio della sua amata sposa. Come accadeva ad ogni incontro, Alfio si avvicinò al barone dicendo “Bacio le mani a Voscienza” e prendendo fra la sua mano sinistra quella sinistra del barone (non si porge la mano destra ad un inferiore); questa volta invece del consueto baciamani il barone ricevette sul collo la carezza di un “alliccasapuni” (lecca-sapone), cioè della coltellata inferta dal buon Alfio con tutta la rabbia che aveva in corpo e nell'anima. Il buon contadino osservava trionfante l'espressione sgomenta del barone, nella quale l'espressione di stupore era vinta solo dall'espressione di stupidità. In tutta tranquillità Alfio si appropriò dei due fucili da caccia lasciati incustoditi dai fiduciosi e ottusi servi del barone, i quali in quel momento, del tutto inconsapevoli di quanto era accaduto, erano immersi in una partita a briscola con contorno di cacio e vino.
In compagnia dell'amata sposa e dei due fucili il valoroso picciotto attraversò il paese sotto gli sguardi ammirati dei compaesani; non più frizzi e lazzi al suo passaggio, non più la “injuria” di “Affiu 'u babbu” , Alfio l'incapace, ripetuta con accanita monotonia, ma sguardi di ammirazione e grida di “Viva Affiu 'u spertu”, viva Alfio l'astuto, accompagnarono il glorioso cammino dei due sposi verso l'agognato talamo nuziale.
In quale momento il mite Alfio decise il suo piano non ci è dato sapere.
Scartata subito l'ipotesi di rivolgersi all'autorità costituita, costituita appunto a sostegno della classe dominante, non rimaneva che, in assenza di giustizia, farsi giustizia da se.
Io sono convinto che già al primo baciamani l'avesse già deciso, ricordando l'antico proverbio che usava ripetere suo nonno:
“Vasa 'dda manu ca vo' tagghiata” - Bacia quella mano che vuoi che sia tagliata.
Dove non puoi arrivare con la forza, adopera l'astuzia, la simulazione e la dissimulazione.
E c'è qualcuno che è convinto che i proverbi siano tutti stupidi ed inutili.
Il proverbio siculo "Vasa 'dda manu ca vo' t'agghiata" è piuttosto benevolo e tollerante; infatti non dice bacia la mano che vorresti tagliata e poi tagliala ma accontentati di sperare che qualcuno la tagli(vorresti vedere tagliata); in tal senso il povero Alfio è andato oltre l'insegnamento. E' molto più diretto il corrispondente proverbio sardo "Fagher su bellu in cara, et insegus s'istoccada" (Far il bello in faccia, e dietro la stoccata). Entrambi legittimano la falsità secondo l'etica Macchiavelliana. L'origine dei due proverbi trova riscontro nella bibbia "Lo stolto manifesta subito la sua collera, l`accorto dissimula l`offesa (proverbi 12,16).
RispondiEliminaCerto quante cose potrebbero dirsi su un proverbio, quanti modi di interpretarlo, quanta saggezza servirebbe per attribuirgli il giusto significato. Nella misura in cui stimolano una riflessione i proverbi non sono inutili ma la maggior parte sono assolutamente stupidi e pericolosi o meglio diventano pericolosi se gli si vuole attribuire la falsa etichetta di saggezza e guida comportamentale. Un proverbio sardo recita "Homine longu, homine locu" (Uomo alto, uomo scemo) e sfido chiunque a trovarvi barlumi di saggezza ma se fosse assunto come vangelo forse gli uomini alti avrebbero qualche problema. Se questo può sembrare un esempio paradosso non lo è assolutamente quanto è successo in Turchia.
Nel 2006 l’Istituto della lingua turca, una specie di Accademia della Crusca anatolica, ha deciso di eliminare dai dizionari tutti quei proverbi, prodotti nei secoli dall’originaria cultura nomade dei turchi, che incitano alla violenza contro il gentil sesso o relegano comunque le donne a un ruolo di secondo piano.
Spariranno così adagi come “a un buon cavallo basta poco cibo, così come a una buona donna basta un paio di mutande”, o “la schiena di una donna non va lasciata senza bastonate, e la pancia non va lasciata senza bambini”, o ancora “come non è buono il mais raccolto dopo agosto, così non è buona la donna che si alza dopo il marito”. L'eliminazione non è dovuta a scelte linguistiche ma alla consapevolezza che questa 'saggezza popolare' ispira ancora il comportamento maschile nella società turca. Dunque non mi preoccupo dell'inutilità dei proverbi che di per se non farebbe danno, ma dell'etichetta di saggezza che viene loro attribuita col rischio di avvallare luoghi comuni o leggi di parte. La saggezza dei proverbi ove esiste è dedicata a persone sagge che sappiano interpretarli, ma sarebbe un bel guaio se la saggezza di queste persone venisse dai proverbi. Walter (BO)
Rif. Walter
RispondiEliminaIl proverbio "Vasa dda manu ca tu voi tagghiata" è tratto dalla raccolta dell'abate Santo Rapisarda, seconda edizione, Catania, Giannotta, 1924:
...
...
...
...
E siddu ancora a la facci ti sputa,
Ma ti manteni tutta la casata,
Cala la testa, e stu pruverbiu ascuta,
Vasa dda manu ca tu voi tagghiata.
Questo proverbio appartiene quindi a quella schiera assai numerosa che invita a sopportare le angherie dei padroni per amore della propria famiglia, che in caso di ribellione rischia di perdere ogni forma di sostentamento.
Il povero Alfio probabilmente, almeno all'inizio, si piega per paura di perdere definitivamente sia la sua sposa che la propria libertà, ma gli sberleffi ai quali viene sottoposto dai suoi compaesani e la sfacciata irrisione da parte del barone e dei suoi scagnozzi, fanno insorgere in lui la rabbia e la consapevolezza che non avrebbe più potuto vivere con dignità e rispetto il resto della sua vita. Da qui la ribellione.
Questa è una ipotesi.
Io continuo a propendere invece per la tesi della premeditazione.
Un proverbio può essere creato, come spesso è accaduto, per mantenere in uno stato di soggezione permanente le classi subalterne: sopporta per non subire conseguenze ancora più gravi, ma può anche essere diabolicamente travisato per ingannare chi ti opprime.
Non per niente si dice: "Contadino, cervello fino"
Sulla presunta saggezza del popolo, ho scritto, sotto l'indice Varianti e parafrasi che più che la saggezza i proverbi esprimono l'esperienza e le convinzioni, sia giuste che errate del popolo, nonché i pregiudizi.
Per quest'ultimo aspetto si veda il post "Chi dice donna dice..."
Molto belli i proverbi sardi.