Benvenuti. Non esistono quasi limiti di tempo e di spazio nella dimensione dei proverbi, tanto vasta ne è la diffusione nel tempo e nello spazio. Da tempo immemorabile l'uomo fa uso di proverbi, sia nella tradizione orale come in quella scritta. Spesso è assai difficile risalire all'origine di un proverbio e stabilire se esso è transitato dalla tradizione orale alla letteratura o viceversa, se è di origine colta o popolare. Anche la linea di demarcazione tra proverbi, detti, motti, sentenze, aforismi, è assai sottile e forse non è così importante come si crede definire l'origine di un proverbio o di un aforisma quanto piuttosto risalire alle motivazioni che ne hanno determinato sia la nascita che l'uso più o meno frequente.

Della mia passione e delle mie ricerche sull'argomento e non solo su questo, cercherò di scrivere e divagare ringraziando anticipatamente quanti vorranno interagire e offrire spunti per sviluppare il tema col proprio personale e gradito contributo.

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domenica 16 novembre 2008

I poveri e i ricchi li fece il Signore

Questo proverbio è stato confutato dal poeta Ignazio Buttitta, che ritiene invece che ogni uomo ha il diritto di migliorare le proprie condizioni socio-economiche, e che ogni individuo è padrone del proprio destino ed ha il diritto e il dovere di affrancarsi da condizioni di nascita sfavorevoli.

In modo dissimile sembrano pensarla due grandi guide religiose e precisamente san Paolo e Lutero.

" ... secondo il monito paolino e luterano a non uscire dal proprio stato sociale, a rispettare la varietà "naturale" dei ceti" (1)

San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi:

7, 17 "Ciascuno continui a vivere secondo la condizione che gli ha assegnato il Signore, così come Dio lo ha chiamato"

7, 21 "Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; ma anche se puoi diventare libero profitta piuttosto della tua condizione!"

Beati quindi i poveri che possono trarre profitto dai soprusi, dalle sofferenze inflitte dai loro padroni, conquistandosi così il Regno dei Cieli.
Ma se ognuno è padrone del proprio destino e può decidere di non ribellarsi e rimanere pazientemente nella condizione di schiavo o di povero perenne, non può, a mio parere, rimanere indifferente di fronte alla miseria e alla schiavitù dei propri simili, di fronte ai quali, come don Lorenzo Milani, deve esclamare "I care!", mi sta a cuore la tua salute dell'anima, ma non sono indifferente alla tua salute fisica e mentale.

Secondo il criterio paolino (se preso alla lettera e non nello spirito) san Francesco e don Milani sarebbero entrambi "eretici", perché il primo non ha voluto accettare la condizione di ricco che il Signore gli avrebbe assegnato, il secondo, oltre ad essere eretico, sarebbe anche un sobillatore ed un eversivo, nel tentativo di far progredire culturalmente e socialmente i propri parrocchiani, e non solo loro.

Si può comunque tentare una conciliazione tra i due differenti punti di vista:
Le parole di san Paolo si possono considerare più un consiglio che un divieto, alla luce del valore infinito della Salvezza rispetto al valore finito delle condizioni di vita terrena, che rimarranno sempre effimere nonostante i nostri sforzi per renderle stabili. Concentrare tutte le nostre risorse verso l'obiettivo del Paradiso è per san Paolo la strada maestra da seguire.
Allo stesso modo don Milani mette sempre al primo posto "l'obbedienza" a Dio rispetto all'obbedienza a Cesare, che sempre a Dio deve essere subordinata, e che anzi si deve disubbidire a Cesare se ciò che ci chiede è in contrasto con il volere di Dio.
La cura per il prossimo più bisognoso si inscrive nel messaggio evangelico di amore per il prossimo e quindi è perfettamente legittimo migliorare le proprie condizioni di vita, ancor più se non si entra in rotta di collisione con il volere di Dio.


La questione è comunque spinosa, come disse quello che coglieva le more.



(1) Claudio Magris, Danubio, Milano, RL Libri, 2005 (prima ediz. 1986)
capitolo II, paragr. 5 - L'idillio tedesco

2 commenti:

  1. Rif. antonio murabito
    L’invito paolino legittima in effetti la schiavitù, è una sorta di imprimatur religioso ad una condizione odiosa ed inaccettabile.
    Inoltre, tale “legittimazione” presenta caratteri di contraddittorietà sui piani logico e religioso. Su quello logico perché si richiede all’essere umano che langue in schiavitù, di sopportare una vita che per sua stessa natura è IN-sopportabile. Su quello religioso, perché Cristo disse: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
    Invitare poi qualcuno a trarre profitto da soprusi e sofferenze è un pessimo es. di humor noir.
    Lutero considerava diabolica la ribellione ai nobili ed ai potenti. Invitò perciò la nobiltà tedesca a sterminare i contadini (maggio 1525, battaglie di Boblingen e Frankenhausen). Circa i contadini in rivolta, diede ai nobili questo paterno consiglio: “Uccidete, dunque, strozzate, massacrate! Soltanto così i prìncipi possono guadagnarsi la salvezza eterna” (Giulio Ubertazzi, “Lutero”, Fratelli Melita Editori, Genova, 1989, p.2169. Con commovente spirito filiale, costoro accolsero il consiglio e tra repressioni militari e torture, ammazzarono circa 100mila contadini (G. Ubertazzi, cit., p.220).
    Il Manzoni della “Storia della colonna infame” addebitò la terribile sorte del Mora e del Piazza (diversamente dal Verri delle “Osservazioni sulla tortura") non all’”ignoranza de’ tempi” ed alla “barbarie della giurisprudenza” bensì a delle generiche “passioni perverse” (A. Manzoni, “Storia della colonna infame”, Ten, Roma, 1993, p.14).
    Manzoni arrivò (profittate, oppressi, profittate…) ad affermare che se gli accusati avessero avuto gli stessi “sentimenti” cristiani di un altro degli ingiustamente accusati, non avrebbero subito processo e torture (A. Manzoni, “Storia”, cit., p.79).
    Invece, in pieno ‘500 l’ecclesiastico Bartolomè de Las Casas, ben lungi dall’invitare gli indios a “trarre profitto” da schiavismo, stupri, torture, massacri e mutilazioni evangelicamente offerti loro dagli spagnoli, quando essi si ribellarono “ammazzando una gran quantità” dei loro aguzzini, parlò di “una santa e giustissima azione” (B. de Las Casas, “Brevissima relazione della distruzione delle Indie”, a c. di C. Acutis, Mondatori, Milano, 1987, p.67).
    Ed io condivido la conclusione del Las Casas, perché credo che accettare condizioni di vita palesemente inique ed umilianti significhi sprofondare in un’esistenza inumana ed anticristiana.

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  2. rif. antonio murabito
    Errata corrige: la citazione dall'op. di Ubertazzi si trova a p.216, non a p.2169.
    La casa ed. che ha pubblicato l'op. del Las Casas è naturalmente la Mondadori, non la Mondatori.

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