Benvenuti. Non esistono quasi limiti di tempo e di spazio nella dimensione dei proverbi, tanto vasta ne è la diffusione nel tempo e nello spazio. Da tempo immemorabile l'uomo fa uso di proverbi, sia nella tradizione orale come in quella scritta. Spesso è assai difficile risalire all'origine di un proverbio e stabilire se esso è transitato dalla tradizione orale alla letteratura o viceversa, se è di origine colta o popolare. Anche la linea di demarcazione tra proverbi, detti, motti, sentenze, aforismi, è assai sottile e forse non è così importante come si crede definire l'origine di un proverbio o di un aforisma quanto piuttosto risalire alle motivazioni che ne hanno determinato sia la nascita che l'uso più o meno frequente.

Della mia passione e delle mie ricerche sull'argomento e non solo su questo, cercherò di scrivere e divagare ringraziando anticipatamente quanti vorranno interagire e offrire spunti per sviluppare il tema col proprio personale e gradito contributo.

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lunedì 11 febbraio 2008

Equa diseguaglianza

La locuzione equa diseguaglianza fu adoperata dal socialista Giorgio Ruffolo in un forum sulla rivista “Rinascita”.
Con questo insolito ossimoro intendeva esprimere il suo proposito di conciliare lo sviluppo dell’economia e della società senza però creare diseguaglianze economiche e sociali che avrebbero determinato delle fratture insanabili all’interno del mondo del lavoro e della società intera, tali da creare dei veri e propri mondi incomunicabili.
Differenze di retribuzione si, quindi, ma non di portata tale da creare divisioni all’interno del mondo del lavoro dipendente, nella popolazione attiva e in quella priva di occupazione, per scelta o difficoltà di entrare nel mercato del lavoro, o per condizione anagrafica o impedimenti dovuti a condizioni precarie di salute.
Ruffolo sosteneva che non c’era peggiore diseguaglianza di quella che derivava da una indiscriminata uguaglianza, che metteva sullo stesso piano condizioni socio-economiche, capacità professionali, condizioni assai difformi di malessere e comunque di disagio.
Dare la medesima retribuzione per lavori assai differenti dal punto di vista qualitativo e di produttività, di differenti capacità, avrebbe secondo Ruffolo, rappresentato una palese forma di ingiustizia, secondo il principio che a ciascuno deve essere dato secondo le sue capacità. Le differenze di retribuzioni secondo le proprie capacità non devono però creare abissali distanze di condizioni economiche e sociali tali da generare due mondi antagonisti. Così devono esserci differentze di retribuzione tra lavori che richiedono modeste conoscenze e poca o alcuna formazione professionale e lavori che invece sono stati preceduti da anni di studio e di formazione post-scolastica.
Altrettanto ingiusto sarebbe far durare la permanenza al lavoro allo stesso modo per lavori particolarmente ed oltremodo usuranti nella stessa misura rispetto ad impieghi che lo sono molto meno. Si può a tal proposito fare riferimento al lavoro in fabbrica, con turni disagevoli, ma anche ad altri lavori particolarmente stressanti.
Non bisogna poi dimenticare il carico di famiglia: nulla di più ingiusto di una retribuzione uguale o con minime differenze tra chi ha carico numeroso di famiglia e chi non lo ha. L’introduzione degli assegni familiari ha risolto in minima parte il pesante squilibrio tra il reddito pro capite di una famiglia con prole inoccupata e quello ad esempio di due coniugi occupati senza prole. Non credo di esagerare nel sostenere che tra due coniugi occupati senza figli e una famiglia sorretta solo da uno stipendio con coniuge e due figli a carico, nonostante gli assegni familiari, esiste un abisso retributivo forse superiore a quello tra una presunta famiglia benestante rispetto ad una relativamente bisognosa. Quindi per ottenere quella equa diseguaglianza, caldeggiata da Ruffolo, occorre differenziare sostanzialmente i redditi, attraverso tagli fiscali o altri provvedimenti ad hoc, tra famiglie in base alle persone a carico.
Valorizzare quindi le capacità professionali senza mortificare le necessità familiari.
Rispetto al periodo nel quale Ruffolo sosteneva la sua tesi, le diseguaglianze dal punto di vista familiare si sono alquanto accorciate, determinando una grave ingiustizia sociale nelle capacità di spesa delle famiglie numerose.
Può sembrare paradossale ma una effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini può essere ottenuta solo con una oculata diseguaglianza, che dia a ciascun cittadino pari opportunità di crescita sociale e culturale.
Ho lasciato per ultima la questione territoriale. Per decenni si è giustamente parlato di Questione Meridionale, per le minori opportunità di lavoro e di sviluppo civile nel Mezzogiorno d’Italia rispetto al Centro e al Settentrione, distacco dovuto a cause storiche e ad una assai minore sensibilità delle classi dominanti e dirigenti versi i problemi del Sud nel nostro paese. Oggi si parla con insistenza di una Questione Settentrionale, come se il Meridione avesse in qualche modo risolto o accorciato le diseguaglianze con il resto del paese. Si deve piuttosto parlare di una Questione Italia, nella quale la divisione internazionale del lavoro ed una globalizzazione senza regole hanno causato un impoverimento diffuso del nostro paese, che ha prodotto una maggiore accentuazione nel divario tra classi ricche e classi povere, che hanno subito un impoverimento non soltanto in termini relativi rispetto alle classi ricche, ma anche in termini assoluti, dato il minor potere d’acquisto di salari e stipendi.
Nell’impoverimento diffuso maggiormente soffrono le famiglie che vivono in territori dove più alto è il costo della vita, quindi la terza via da percorrere per una differenza retributiva equa è quella territoriale.
La Confindustria sostiene che questo obiettivo può essere raggiunto valorizzando la contrattazione aziendale e svuotando o quasi quella di categoria.
L’imprenditore Pasquale Pistorio, ex vicepresidente di Confindustria, esprime efficacemente tale punto di vista: “Non ha senso che un posto di lavoro al Sud debba costare come al Nord quando il costo della vita è inferiore. I sindacati sbagliano ad opporsi alle misure per diminuire il costo del lavoro in nome di un’errata idea del principio di uguaglianza”. (1)
Il ragionamento mi sembra ineccepibile per quanto riguarda la sostanza, ma estremamente pericoloso nel metodo e, se realizzato nelle forme proposte, assai peggiore del male che si vuole curare.
Affidare totalmente, o quasi, alla contrattazione aziendale i rinnovi contrattuali, causerebbe una rovinosa caduta del potere contrattuale dei lavoratori, che avrebbero bisogno piuttosto di un poderoso allargamento del fronte contrattuale, coinvolgendo lavoratori all’interno dell’Unione Europea ed anche ad di fuori di essa, per meglio far valere i propri diritti, di fronte ad una "imprenditoria" mondiale aggressiva e scarsamente sensibile ai problemi di sopravvivenza dei lavoratori e dei popoli.
Non secondaria sarebbe la catalogazione in differenti fasce salariali di lavoratori che svolgono medesimi lavori. Quindi a mio modesto parere occorre distinguere nettamente la parte professionale da quella territoriale, ma occorre farlo mantenendo ed anzi rafforzando la contrattazione di categoria. Le zone territoriali nelle quali si dovrebbe dividere il territorio in base al costo della vita dovrebbe essere fatta dagli stessi lavoratori, con rilevazioni indipendenti da quelle fatte dall’ISTAT, quasi mai attendibili.
Quindi una equa diseguaglianza, oculatamente determinata, può essere l’unica via a realizzare quella effettiva uguaglianza da molti evocata, ma da troppi elusa.



(1) Giovanni Russo, Il futuro è a Catania. Inchiesta su un'industria d'avanguardia in un'antica città del Sud, Milano, Sperling & Kupfer, 1997
capitolo 9: Le tre regole d'oro - intervista a Pasquale Pistorio.

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