Benvenuti. Non esistono quasi limiti di tempo e di spazio nella dimensione dei proverbi, tanto vasta ne è la diffusione nel tempo e nello spazio. Da tempo immemorabile l'uomo fa uso di proverbi, sia nella tradizione orale come in quella scritta. Spesso è assai difficile risalire all'origine di un proverbio e stabilire se esso è transitato dalla tradizione orale alla letteratura o viceversa, se è di origine colta o popolare. Anche la linea di demarcazione tra proverbi, detti, motti, sentenze, aforismi, è assai sottile e forse non è così importante come si crede definire l'origine di un proverbio o di un aforisma quanto piuttosto risalire alle motivazioni che ne hanno determinato sia la nascita che l'uso più o meno frequente.

Della mia passione e delle mie ricerche sull'argomento e non solo su questo, cercherò di scrivere e divagare ringraziando anticipatamente quanti vorranno interagire e offrire spunti per sviluppare il tema col proprio personale e gradito contributo.

I commenti sono ovviamente graditi. Per leggerli cliccate sul titolo dell'articolo(post) di vostro interesse. Per scrivere(postare,pubblicare) un commento relativo all'articolo cliccate sulla voce commenti in calce al medesimo. Per un messaggio generico o un saluto al volo firmate il libro degli ospiti (guest book) dove sarete benvenuti. Buona lettura

venerdì 26 febbraio 2010

Chi non fa, non falla

Si sente ripetere, con una insistenza che rasenta l'ossessione, che quello attuale è il governo del fare, in contrapposizione ai governi del dire del vicino passato e anche di quello più o meno remoto, ad eccezione dell'omologo governo del fare sul più bello interrotto, di bossiana memoria.
Agire molto e molto velocemente, superare lacci e lacciuoli, come amava ripetere Guido Carli, e tutti quegli adempimenti burocratici che rallentano o addirittura impediscono di fare ciò che è necessario e indispensabile per il bene del Paese.
Agire velocemente senza però intaccare la scrupolosa osservanza delle regole di trasparenza, di pari opportunità e di accuratezza nella qualità degli interventi.
Agire tempestivamente riduce costi umani e materiali e allevia le sofferenze di quanti sono stati colpiti da calamità naturali, sia dovute alla furia degli elementi, sia provocate, in parte o in toto, dall'incuria umana.
Chi avrebbe il coraggio di confutare simili argomentazioni?
Agire presto e bene rappresenta quanto di meglio un cittadino onesto e libero da pregiudizi si possa aspettare da chi ha sulle spalle il pesante fardello di una nazione gravata da un pesante debito pubblico, congiuntamente ad una crisi economica mondiale che ha messo in ginocchio economie ben più solide della nostra.
Qualunque critica all'attuale conduzione politica governativa sarebbe quindi pretestuosa, ingenerosa ed ingrata, perché non riconoscerebbe gli sforzi, al limite del sovrumano, compiuti da questi uomini del fare che tutto il mondo ci invidia.
Questo "stile del fare" non sarebbe disgiunto dall'attitudine alla riflessione, del pensare velocemente ma nello stesso tempo profondamente, raggiungendo il traguardo che Alberto Moravia riconosceva solo agli intellettuali: la capacità, appunto, di giungere velocemente a delle formulazioni e a dalle conclusioni, il pensiero, quindi, veloce e profondo.
Cosa induce quindi una piccola ma ostinata schiera di magistrati ad indagare, ad accusare chi si è reso meritorio di tanti prodigiosi risultati a vantaggio di intere popolazioni e della cittadinanza italiana in generale?
Sarà forse il pregiudizio politico, la loro inaccettabile politicizzazione, a spingere questi uomini del disfare ad indagare, a cercare il pelo nell'uovo, a pretendere di utilizzare strumenti, come le intercettazioni telefoniche, smodatamente adoperate, che servirebbero più a diffamare e screditare che a raggiungere risultati penalmente rilevanti?
O, puramente e semplicemente, ci troviamo di fronte a uomini coscenziosi e scrupolosi che compiono semplicemente il loro dovere senza lasciarsi intimidire?
Cosa spinge giornalisti faziosi, manco a dirlo politicizzati e prezzolati, a dubitare della totale onestà di intenti di questi mitici uomini del fare?
Sarà forse l'invidia del talento, per le posizioni di prestigio conquistate a prezzo di duri sacrifici da coloro che criticano senza motivazioni moralmente e giuridicamente fondate?
O, puramente e semplicemente, ci troviamo di fronte ad uomini che amano la propria professione e sono talmente presuntuosi da voler cercare, costi quel che costi, frammenti di verità?

Facile criticare quando non si hanno responsabilità dirette del "fare", ma altrettanto facile, e molto più deleterio, è il fare puntando solamente sul consenso elettorale progressivamente ottenuto, senza tener conto, nel fare e nel dare, di ciò che non si fa, senza interrogarsi seriamente sulle priorità, e di ciò che, nel dare, non di rado carpendo e arraffando, si toglie.
Il Ponte sullo Stretto, abbandonando la felice intuizione delle "Autostrade del Mare", e lasciando le Ferrovie in Sicilia, Calabria, Sardegna e delle tratte percorse dai pendolari di Sud, Centro e Nord, a livelli veramente infimi.

Chi non fa, non falla

è vero

come altrettanto cosa vera e giusta è pensare bene a ciò che si fa:

Cosa pensata, cosa sensata
Pensa la cosa prima che la fai, perché la cosa pensata è bella assai.

L'importante comunque credo sia che le azioni, più o meno meditate, tendano al bene comune, e non all'opulenza di chi già, non sempre legittimamente, possiede, tenacemente abbarbicato ai propri privilegi, incurante del malessere diffuso di vasti strati della popolazione, malessere che egli ha abbondantemente favorito se non direttamente provocato.

domenica 27 dicembre 2009

Odio e Amore

Se gran parte delle citazioni, dei proverbi, dei rari aforismi di questo blog sono tratti da opere letterarie, come romanzi, poesie, saggi, non si possono escludere riferimenti alle varie forme di comunicazione, non strettamente legate alla letteratura, ma non per questo fonte meno suscettibile di riflessioni ed approfondimenti.

E' il caso di un brano di musica RAP, dal titolo "Odio e Amore", del gruppo Mamuthones Clan.
Nel titolo l'Odio precede l'Amore, ma nello scorrere del brano i termini si ripresentano capovolti, l'Amore precede l'Odio:

"Amore, Odio: non può esisterne uno solo, ma senza il primo si raderebbe tutto al suolo"

Si può senz'altro condividere la convinzione che senza Amore il mondo sarebbe soltanto un cumulo di macerie morali e materiali.
Si potrebbe obiettare che l'Amore può benissimo fare a meno dell'Odio, senza il quale l'Umanità tutta potrebbe vivere in perfetta Pace ed Armonia, ma giustamente l'autore del brano RAP fa notare che l'esistenza di questi "sentimenti contrastanti ci fanno andare avanti". L'Amore, cioé, non ci viene regalato dal Buon Dio, già pronto, bello e confezionato, ma occorre conquistarselo attraverso il superamento dell'Odio.
Aggiungo che a volte occorre un pizzico d'odio, nel combattere gli egoismi e l'ingiustizia che nel passato e nel presente contraddistinguono le relazioni umane, sia quelle interpersonali che quelle tra classi sociali in lotta, o tra nazioni, ma alla ingiustizia e alla tirannia che si intende combattere, anche con un pizzico d'odio se necessario, non si deve assolutamente contrapporre una "falsa giustizia" e una "falsa democrazia", che non farebbero altro che perpetuare l'Odio oscurando l'Amore.
Se si vuole ad esempio combattere forme residue di stalinismo non si deve farlo con il concorso di forze che si ispirano al nazismo e/o al neonazismo; viceversa se si vogliono combattere le forme degenerative del capitalismo, non si deve farlo introducendo metodi e obiettivi che soffochino gli spazi individuali di libertà.

Non vorrei essere tacciato di equidistanza, di cerchiobottismo, di dare cioé

un colpo al cerchio e uno alla botte.

Voglio soltanto affermare che ogniqualvolta è necessario limitare lo strapotere di forze economiche che dominano la scena politica e sociale, arrecando danni ingenti ai ceti sociali più deboli come i lavoratori dipendenti, i lavorati eternamente precari, gli artigiani e i piccoli onesti imprenditori (non tutti i piccoli ma solo gli onesti, poiché non di rado i piccoli opprimono più dei grandi), non si devono assumere comportamenti che limitano le libertà di tutti gli onesti cittadini.
Colpiamo speculatori, la mitica Borsa, che tutto ingoia avidamente, le Banche, le aziende fantasma, che si spostano da un lato ad un altro del Pianeta gettando sul lastrico i lavoratori, stronchiamo il lavoro nero e, se necessario, puniamo anche i lavoratori che trascurano le più elementari norme di sicurezza, ma cerchiamo di farlo senza soffocare la libertà e, dopo un salutare, limitato ricorso, se occorre, all'Odio, ritorniamo, vigilando, all'Amore.

Link al sito da cui è tratto il brano RAP Odio e Amore

martedì 1 dicembre 2009

martedì 3 novembre 2009

Il peso della giustizia

Quelli che seguono non sono proverbi in senso stretto, alcuni sono frutto di elaborazione degli autori, a volte sotto forma di amara riflessione, altre volte sono commenti di personaggi caratterizzati da un livello culturale medio-alto, e quindi più assimilabili agli aforismi che ai proverbi. Tutti hanno comunque in comune l'appartenenza al tema della giustizia, della legge e del suo rapporto più vicino all'ingiustizia, alla disparità di trattamento e alla diseguaglianza nella valutazione dei delitti e delle pene.

in Arthur Conan Doyle, Sir Nigel Loring, Le tre imprese, parte prima, cap. secondo:
"La borsa più pesante fa abbassare le bilance della giustizia"

in Cervantes, Don Chisciotte, vol. II, cap. XLII:
"Se accade che la bacchetta della giustizia si curvi, ciò non avvenga mai per lo peso dei donativi, ma per quello della misericordia" (don Chisciotte)

in Agata Christie, Appuntamento con la paura - racconto Doppio indizio:
"Costui si è fatto una legge per le persone titolate e un'altra per quelle che non lo sono" (Poirot)

Un wellerismo di mia composizione, proposto con una variante:
La legge è legge, anche quando è amara, come disse Socrate poco prima di bere la cicuta.
Brindo al trionfo della giustizia, come disse Socrate un attimo prima di bere la cicuta.

Una citazione dedicata a chi rimpiange il buon tempo antico nel quale ordine e disciplina regnavano sovrani:
"Che tempi! Un galantuomo non può più dare un calcio a un contadino", motto di Filippo Buscemi, proprietario terriero;
in Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, cap. "La storia di Regalpetra"

venerdì 3 luglio 2009

Imprenditori e dipendenti uniti nella lotta?

Chi afferma che la lotta di classe è una vecchia ferraglia arrugginita, del tutto incapace di modificare gli assetti socio-economici di un paese, un anacronismo, insomma, del tutto inadeguato per i tempi che stiamo vivendo, dovrebbe navigare fra i blog con maggior spirito di ricerca e scevro da ogni pregiudizio.
Troverebbe così una riedizione della lotta di classe in termini del tutto inaspettati ma alquanto suggestivi.
Non più l'irriducibile antagonismo tra padroni e servi, tra imprenditori e mano d'opera, tra proprietari dei mezzi di produzione e proletari, ma tra protagonisti del mondo del lavoro, imprenditori e lavoratori dipendenti, uniti nella lotta contro un nemico comune, ritenuto come il principale, se non unico, responsabile, delle crisi economihe, almeno in Italia, passate, presenti e, se non si interviene, anche future.
Qual è questo nemico comune a tutti gli uomini di buona volontà?
Più delle varie forme di criminalità organizzata, questo nemico viene individuato nella lentezza, nella contraddittoria babele di leggi e disposizioni che regolano la vita lavorativa, e non solo, di tutti gli italiani. In una parola questo Moloch inarrestabile e vorace prende il nome di Burocrazia.
Secondo questa geniale tesi, questo mostro colpirebbe in modo uguale ricchi e poveri, datori di lavoro e dipendenti, uomini e donne validi e uomini e donne diversamente abili.
A questo punto, per esprimermi come il celebre umorista Achille Campanile, dissenteria.
Esprimo il mio totale dissenso nei confronti di questa brillante ma non veritiera tesi. Non perché non ritenga la burocrazia, così come la viviamo nel nostro paese, un male, ma perché non solo assolutamente convinto che essa colpisca classi dominanti, ceti medi, più o meno impoveriti, e classi cosiddette strumentali e subalterne allo stesso modo; anzi mi azzardo a sostenere che essa burocrazia consolidi il dominio di classe tra sfruttatori e sfruttati.
Chi dispone di scarsi mezzi finanziari non può difendersi con la stessa efficacia di chi invece può permettersi un intero apparato difensivo e offensivo, non escluse forme di pressione dirette od indirette, come ad esempio la corruzione, che raramente apre le porte della prigione, ma che spesso accelera tutte quelle operazioni che per il cittadino comune diventano irraggiungibili.
Rigetto questa lotta di classe, argutamente battezzata liberale, ma che non libera né energie nuove né, tantomeno, contribuisce ad uno sviluppo armonico della società.
Riformiamo la burocrazia, ma ognuno per proprio conto. Sono convinto che in questa lotta le classi dominanti si comporterebbero come "gli eroi da sesta giornata", come quegli assenti dalle "Cinque Giornate di Milano", che si sono fatti vedere solo quando tutto si era compiuto, pretendendo meriti che non gli appartenevano.

sabato 11 aprile 2009

Pioggia o sole a Pasqua scorrono liete le ore




Non viene Pasqua al mondo fino a che la luna di marzo non ha fatto il tondo

Gira rigira e datti da fare, l'inverno dura fino a Pasqua

Pasqua piovosa, annata prosperosa

venerdì 13 febbraio 2009

La spina che non ti punge è morbida come seta

Mi è ritornato in mente questo proverbio, letto ne "Gli zii di Sicilia" di Leonardo Sciascia; mi è ritornato in mente con insistenza sentendo pronunciare sentenze di condanna per un avvenimento che non aveva prodotto in chi non si peritava di infliggere condanne e auspicare pene nei confronti di chi pene laceranti aveva già subito, spesso condanne e pene auspicate senza capire, e che non avrebbero nemmeno essere pronunciate anche se si fosse capito, le stesse sofferenze che si voleva che in altri venissero perpetuate.
Non di rado si sente dire "Io mi sarei comportato diversamente" , ma quasi sempre non si è mai vissuta l'esperienza della quale è vittima chi è fatto oggetto delle nostre pretestuose e presuntuose lezioni di etica.

sabato 17 gennaio 2009

Efemere: tra aforismi e wellerismi

Le efemere sono "insetti definiti come bestioline o un piccolo fiore costretto ed essiccato tra le pagine di un libro" (dalla nota introduttiva di Sandro Montalto al libro Efemere di Marco Sartorelli) (1).

Queste efemere, nel sottotitolo definite anche aforismi apocrifi, appartengono, come i proverbi, gli aforismi veri e propri ed i wellerismi, alle forme letterarie "brevi".

Sia Montalto, nella

nota introduttiva ,

che la Antolisei,

nella recensione , apparentano le efemere ai wellerismi.
Partendo dalla raccolta di Sartorelli, cercherò di commentarle e di trasformarne la struttura in wellerismi, in un caso mantenondone intatto, o quasi, il significato, in un altro modificandolo.

"Perché no? - Carlo F., 21 anni - Biglietto di addio, Palermo."

"Volevo una vita senza se - Antonio S. - Suicida, Milano, 1964"

Il primo messaggio si commenta da se, il secondo, pur non chiarendo del tutto i motivi del suicidio, si presta ad una qualche considerazione, spero non peregrina.
Se non altro il suicidio permette di scegliere come quando e dove concludere la propria esistenza terrena; si può dire che rappresenta uno dei rarissimi casi nei quali il tempo, il luogo e il come di un evento possono essere oggetto di una scelta più o meno oculata. Ma si può veramente dire che, almeno nel secondo caso, il suicida abbia raggiunto il suo obiettivo?
Certamente ha eliminato dalla sua vita tutti i se che gli procuravano angoscia, ma insieme ai se ha eliminato la propria vita; ha quindi eliminato i se, ma anche sè.
Obiettivo quindi fallito. Questo se ipotizziamo che non esista altra vita oltre quella terrena; ma se ammettiamo una vita ultraterrena il discorso cambia, poiché il suicida trasforma la propria vita senza annientarla, ma il fallimento più grande è che i se non solo non vengono eliminati, ma se ne aggiunge uno nuovo ancora più angosciante, eterno ed irrisolvibile: se avessi scelto di continuare a vivere!

Trasformato in wellerismo potrebbe presentarsi così:

"Volevo una vita senza se, come lasciò scritto un giovane suicida"

La terza efemera:
"A morte l'aggettivo possessivo!
Roberto "Fuego" Gamilo, Rivoluzionario cubano.

Subito modificato in wellerismo, alterandone in qualche modo il contenuto ed in parte confutandolo.:

"Sostituiamo con nostro l'aggettivo possessivo mio , come disse un rivoluzionario cubano.

L'efemera fa riferimento sicuramente ad un rivoluzionario cubano che intende abbattere il regime di Batista, fondato sul dominio opprimente della proprietà privata, sostituendolo con la sua abolizione. Ma un povero cubano che non aveva niente non avrebbe dovuto desiderare di fare una rivoluzione con lo scopo di continuare a non avere ugualmente niente. Quindi più appropriato sarebbe stato uno slogan che mettesse in risalto l'aspirazione alla libertà politica, alla partecipazione alla ricchezza con una equa distribuzione di essa fra tutto il popolo, abolendo i privilegi semi-feudali in vigore col regime di Batista.
Ma l'aggettivo possessivo "nostro" può nascondere insidie ancora più pericolose dell'aggettivo possessivo "mio", specie quando viene adoperato in senso restrittivo.
Se con "nostro" si intendono gli interessi, i valori, ed i disvalori di una ristretta cerchia di uomini e donne, i militari, il partito, la classe dominante, e non tutti i cittadini, l'oppressione coniugata con l'aggettivo "nostro" può diventare ancora più oppressiva di quella esercitata con l'aggettivo "mio".
Quindi ritengo positivo il mio wellerismo (scopiazzato), a condizione che "nostro" sia il più possibile inclusivo , e il più possibile partecipato .



(1) Marco Sartorelli, Efemere - Aforismi apocrifi, Novi Ligure AL, Edizioni Joker, 2004

mercoledì 31 dicembre 2008

Buon Anno




Capo d'anno e capo di mese, piglia la borsa e mettici il tornese.

Chi mangia l'uva per capodanno sta bene tutto l'anno.

Ogni anno nuovo che avanza, ha in gestazione una nuova speranza.

lunedì 22 dicembre 2008

Lontano dagli occhi, ma non lontano dal cuore.

Il tema della lontananza è presente non solo nei proverbi, ma in tutte le forme di espressione, dai film alle canzoni.
A volte la nostalgia deriva dalla lontananza dai luoghi:

"Lontan da te non se po' sta'" (riferito a Napoli),

più spesso dalle persone amate.

"Lontano dagli occhi" è una delle canzoni più conosciute di Sergio Endrigo:

"Per uno che torna e ti porta una rosa
mille si sono scordati di te"

Predominerebbe quindi l'oblio sul ricordo, almeno quantitativamente, ma "quell'uno" che non si scorda riscatta tutti gli smemorati.

Anche Modugno si è cimentato col tema della lontananza, che "spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi".
Ma Endrigo non ha dedicato al tema dell'assenza una sola canzone:

"La tua assenza riempie i miei giorni di te" (canzone La tua assenza).

"La solitudine che tu mi hai regalato, io la coltivo come un fiore" (Canzone per te).

"Il mio pensiero ti seguirà sarò con te, ovunque sei, dove andrai" (Adesso si).

Quanto diverso è l'approccio al tema della sepaeazione rispetto alla tendenza dominante nella canzone italiana, secondo la quale il distacco dalla persona amata provocherebbe l'annientamento fisico e morale dell'amante. Alcuni esempi:

" ... di questa vita che mai, mai e poi mai potrà continuare se
mi allontani da te"

"Se tu non fossi qui, se tu non fossi qui
povero me!
Sarei una cosa morta, una candela spenta, un uomo inutile" (credo sia di Peppino Gagliardi.
Bella canzone, d'accordo, ma che lagna!

La distanza, in Endrigo, viene vissuta, si con melanconia, ma senza disperazione.
Forse pochi hanno colto elementi di ottimismo nelle canzoni di Endrigo, ma sono convinto che egli abbia efficacemente espresso che ciò che è avvenuto non è avvenuto invano, e che l'assenza e la distanza non derivano tanto dallo spazio e dal tempo che separano, ma principalmente da uno stato d'animo; si può essere cioè vicini con la mente e con l'anima, anche se la separazione è avvenuta in modo definitivo, come nel passaggio dal mondo della menzogna a quello che Giovanni Verga ha definito "mondo della verità".
Ciò è ancora più vero se chi si è allontanato da noi è vissuto cercando, e spesso trovando, la verità in questo mondo in cui predomina la falsità; e sono convinto che Endrigo la verità la abbia testimoniata nelle sue canzoni, e molto probabilmente anche nella vita.

domenica 16 novembre 2008

I poveri e i ricchi li fece il Signore

Questo proverbio è stato confutato dal poeta Ignazio Buttitta, che ritiene invece che ogni uomo ha il diritto di migliorare le proprie condizioni socio-economiche, e che ogni individuo è padrone del proprio destino ed ha il diritto e il dovere di affrancarsi da condizioni di nascita sfavorevoli.

In modo dissimile sembrano pensarla due grandi guide religiose e precisamente san Paolo e Lutero.

" ... secondo il monito paolino e luterano a non uscire dal proprio stato sociale, a rispettare la varietà "naturale" dei ceti" (1)

San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi:

7, 17 "Ciascuno continui a vivere secondo la condizione che gli ha assegnato il Signore, così come Dio lo ha chiamato"

7, 21 "Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; ma anche se puoi diventare libero profitta piuttosto della tua condizione!"

Beati quindi i poveri che possono trarre profitto dai soprusi, dalle sofferenze inflitte dai loro padroni, conquistandosi così il Regno dei Cieli.
Ma se ognuno è padrone del proprio destino e può decidere di non ribellarsi e rimanere pazientemente nella condizione di schiavo o di povero perenne, non può, a mio parere, rimanere indifferente di fronte alla miseria e alla schiavitù dei propri simili, di fronte ai quali, come don Lorenzo Milani, deve esclamare "I care!", mi sta a cuore la tua salute dell'anima, ma non sono indifferente alla tua salute fisica e mentale.

Secondo il criterio paolino (se preso alla lettera e non nello spirito) san Francesco e don Milani sarebbero entrambi "eretici", perché il primo non ha voluto accettare la condizione di ricco che il Signore gli avrebbe assegnato, il secondo, oltre ad essere eretico, sarebbe anche un sobillatore ed un eversivo, nel tentativo di far progredire culturalmente e socialmente i propri parrocchiani, e non solo loro.

Si può comunque tentare una conciliazione tra i due differenti punti di vista:
Le parole di san Paolo si possono considerare più un consiglio che un divieto, alla luce del valore infinito della Salvezza rispetto al valore finito delle condizioni di vita terrena, che rimarranno sempre effimere nonostante i nostri sforzi per renderle stabili. Concentrare tutte le nostre risorse verso l'obiettivo del Paradiso è per san Paolo la strada maestra da seguire.
Allo stesso modo don Milani mette sempre al primo posto "l'obbedienza" a Dio rispetto all'obbedienza a Cesare, che sempre a Dio deve essere subordinata, e che anzi si deve disubbidire a Cesare se ciò che ci chiede è in contrasto con il volere di Dio.
La cura per il prossimo più bisognoso si inscrive nel messaggio evangelico di amore per il prossimo e quindi è perfettamente legittimo migliorare le proprie condizioni di vita, ancor più se non si entra in rotta di collisione con il volere di Dio.


La questione è comunque spinosa, come disse quello che coglieva le more.



(1) Claudio Magris, Danubio, Milano, RL Libri, 2005 (prima ediz. 1986)
capitolo II, paragr. 5 - L'idillio tedesco

mercoledì 16 luglio 2008

Introduzione ai Wellerismi

"The term "wellerism" used to identify those proverbial sayings that were so common on the lips of Dickens' Sam Weller, owes its currency to Archer Taylor". (1)

Dopo Archer Taylor (The proverb, Cambridge, 1931), il termine "wellerismo" fu adottato anche da Raffaele Corso in Italia (Wellerismi italiani, in Folklore, Fasc. III-IV, 1947-1948), da A. Van Gennep in Francia (Wellerismes francais, 1933-1934), ma non in Spagna, dove gli fu preferito "Dialogismos paremiologicos" e in Germania (Beispielssprichwort, Apologisches Sprichwort, Sagwort. (2)

From Wikipedia, the free encyclopedia:

Apologetic proverb
An apologetic proverb (also known as a joke-like form of proverb common to Dutch and known in English as wellerisms) typically consists of 3 parts: a proverb or saying, a speaker and (often humorous and literal) explanation.
Folklorist Archer Taylor notes that wellerisms are usually of obscure origin, difficult or near impossible to trace, and include sardonic humor.
"Everyone to his own liking, "the old woman said when she kissed her cow"
"This week is beginning splendidly, "said one who was to be hanged on Monday"

Da un altro sito in lingua inglese:
"I see, "said the blind man"
"It all comes back to me now, "said the Captain as he spat into the wind".


Per tornare alla lingua italiana:

Gaetano Perusini, Wellerismi friulani, in Rivista di Etnografia, A. 1948. N. 4,
distingue tra wellerismi proverbiali e wellerismi affabulativi:
"i primi contengono un concetto ben chiaro che non abbisogna di ulteriori commenti, i secondi invece non possono essere perfettamente intesi se non si conosce la favola o il racconto (o l'episodio vero o inventato che sia) che ha dato origine al modo di dire"
Alberto Mario Cirese, Wellerismi e micro-recits, in Lingua e stile, Anno 5, N. 2, agosto 1970, distingue a sua volta tra wellerismi veri e propri e proverbi welleristici, o wellerizzati (da non confondere con i wellerismi proverbiali del Perusini).

Il wellerismo:
"Disse Costanza: L'acqua vuole la pendenza
e l'amore la speranza"

viene catalogato dal Cirese come proverbio wellerizzato, in quanto non esiste alcuna contrapposizione tra chi parla e tra il detto o proverbio. Esiste solamente una assonanza (che Cirese chiama isofonia) fra Costanza, pendenza e speranza e null'altro. A Costanza si potrebbe sostituire qualunque altro nome di donna o di persona; si perderebbe forse soltanto l'isofonia.
Il wellerismo seguente:
"Quant'è bella la pulizia, disse il carbonaio"

presenta una contrapposizione tra "la pulizia" e "l'essere inevitabilmente sporco del carbonaio". Cambiando qui il mestiere del carbonaio con un lavoro "pulito" si perderebbe l'effetto contrasto.
Questo w. napoletano rende ancor meglio il concetto:
"Arrassate ca me tigne, dicette o graunaro"

- Allontanati che mi sporchi, disse il carbonaio -
Questi w. con protagonista il carbonaio possono quindi essere catalogati come w. veri e propri, o wellerismi proverbiali per dirla col Perusini; così come i seguenti:

"E va bene dicette donna Lena quanno vedette 'a figlia, 'a sora, 'a mamma, 'a gatta prena"

"E' un temporale benedetto, disse il contadino, e venne fulminato" (3)

Diverso è il caso del seguente w.
"Dicette l'avaro: serùgliame tutto!"
(Ungimi tutto)
Siamo qui in presenza di un w. affabulativo, del quale non si comprende il significato senza qualche nota esplicativa. Il curatore, Antonio Rotondo (4) aggiunge infatti due righe per spiegarne l'origine.
Io tento di trasformare questo w. da affabulativo a proverbiale, aggiungendo all'interno dello stesso w. la parte affabulativa mancante:

"Ungimi tutto, come disse l'avaro al prete, venuto a somministrargli l'estrema unzione, quando seppe che era gratis"

Ho perso il colore dialettale ed il w. sembra essere troppo lungo, ma non bisogna assimilare il w. al proverbio tradizionale, caratterizzato dalla brevità.
Un'occhiata ai w. di Dickens vi farà rendere conto che la brevità non è una costante.

Il w. si presta molto bene ad essere attualizzato, riferendolo ad eventi ed a personaggi odierni o dell'immediato passato:

Ho provato a coniare tre w. e ve li presento:

"Ho portato l'Italia in Europa, come disse Romano Prodi, dopo aver fatto precipitare gli italiani nella miseria"

"Ho risanato i conti dell'Italia, come disse il ministro Padoa Schioppa, dopo aver dissestato quelli degli italiani"

"Sono entrato in politica per il bene comune, come disse Silvio Berlusconi, quando venne approvata l'ennesima legge ad personam"

Al di fuori dell'attualità:

"Il cliente ritorna sempre sul luogo del diletto, come disse l'incallito bevitore varcando la soglia della bettola"
variante un po' osè:
"Il cliente ritorna sempre sul luogo del diletto, come disse la Madama rivolta al consumato puttaniere"
Questo (questi) esempio è insieme calembour, parafrasi e w.

And, last but not least, un w. coniato da Riccardo Uccheddu:
"La morte di ogni nostro concittadino ci riempie di costernazione, ma ci aiuta anche a vivere, come disse, tutto compunto, un impresario di pompe funebri"

Ma non è ancora finita:
Se nella trasmissione orale dei w. si è costretti ad essere esaurienti, senza possibilità alcuna di allusioni o rimandi, diverso è il caso della "rete", dove il w. può essere enunciato, lasciando ad un link la funzione di svelarne il significato non pianamente comprensibile, ma che, come un rebus, permette di essere chiarito dopo una visitina al sito linkato.
Come esempio ricavo da un commento al sito amico Clear Nuance

il w.

"Purtroppo c'è chi male interpreta uno sguardo... e io ne approfitto, come disse un tale Rosario Chiàrchiaro"

Cliccando su Rosario Chiàrchiaro si apre la pagina web rivelatrice.
Buona scoperta a tutti!



(1) Charles Speroni, The Italian Wellerisms to the End of the Seventeenth Century, University of California Press, 1953, Introduction.
(2) liberamente tratto da C. Speroni, op. citata. Introduction
(3) Giovanni Tucci, Studi e ricerche sui wellerismi, in Rivista di Etnografia (1965-66).
(4) Antonio Rotondo, 'A vita è 'nu 'imbruòglio!, Sorrento, 1991, pag. 49

mercoledì 25 giugno 2008

Il proverbio propedeutico

Tra gli usi inconsueti di cui si servono gli scrittori nell'uso dei proverbi, questo di Marco Polillo (1) mi sembra davvero uno dei più rari e più efficaci.
Quasi tutti i proverbi e i modi di dire, tranne alcuni che sono commenti dell'autore, sono pensati dal protagonista e svolgono una funzione che potrebbe definirsi propedeutica, in quanto aiutano l'investigatore a meglio inquadrare le vicende apparentemente insolubili.
Il proverbio quindi come esercizio mentale per meglio riflettere, come introduzione ad altri pensieri più articolati.

- Buttare fumo negli occhi.

- Cavare un ragno dal buco

- Chi prima arriva meglio alloggia.
In Inghilterra - First come, first served.

- Chi va piano va sano e va lontano.

- Chi va via perde il posto all'osteria.

- Della vittoria tutti si arrogano i meriti, nella sconfitta a uno solo vengono imputati gli insuccessi
citazione liberamente tratta da "Vita di Agricola" di Tacito:
Iniquissima haec bellorum condicio est: prospera omnes sibi vindicant, adversa uni imputantur.

- Fare buon viso a cattiva sorte.

- La notte porta consiglio.

- Il tempo rimedia a tutto.

- Le disgrazie non vengono mai sole.

- Tentar non nuoce.

- Tirare i remi in barca.


(1) Marco Polillo, Testimone invisibile, Euroclub 1998
(prima edizione Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1997).

mercoledì 21 maggio 2008

Il proverbio "cosa nostra". Ovvero: il proverbio interdetto. Ovvero: caccia al proverbio.

Non si tratta di un proverbio ad uso e consumo esclusivo degli adepti e dei simpatizzanti della malfamata associazione mafiosa, ma più modestamente di una strizzatina d'occhio data dallo scrittore Leonardo Sciascia (1) ai suoi corregionali maschi lettori, facenti parte della tribù dei "focosi masculi siculi e sicani".
Con "cosa nostra" si intende qui solo l'appartenenza a tale consolidata tribù, di "nuautri", insomma.

Il senso di appartenenza, la divertita (?) complicità instaurata con l'altrettanto divertito (?) consapevole lettore, viene introdotto da un narratore, manco a dirlo, siciliano:

"Queste lettere di Voltaire, uno leggendole pensa a quel nostro (leggi siciliano) proverbio che dice la sconoscenza del parentado (corsivo mio) che in una certa condizione (corsivo mio), in certe circostanze, una parte del nostro corpo (corsivo mio), spietatamente afferma"

"e spiegò agli altri che erano lettere che Voltaire aveva scritto a sua nipote. Sua eccellenza Lumia disse chiaro e tondo il proverbio (ma Sciascia no), il barone precisò che lo stesso termine, che nel proverbio indicava la condizione che veniva a travolgere le barriere del parentado, Voltaire usava, è in italiano"

Il proverbio interdetto dallo scrittore viene però suggerito con l'uso di perifrasi che lo rendono facilmente identificabile dai lettori più avveduti.
Per dare un piccolo aiuto, in questa poco entusiasmante caccia al proverbio, dico che è presente nel mio sito:

http://www.proverbiescrittori.it/

e, con piccole varianti, in uno dei due romanzi più noti di Gavino Ledda:
in Padre padrone (?)
o in Lingua di falce (?).

Ai contemporanei l'ardua ricerca.


(1) Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, capitolo XVI

Il proverbio detto per "non dire"

Non sempre un proverbio viene adoperato per convincere a seguire determinate regole, siano o non siano esse codificate, o per esortare ad accettare con rassegnazione l'avversa fortuna o gioire della propizia.
In uno dei suoi romanzi, lo scrittore Giorgio Todde (1) ci presenta il capitano dei carabinieri Pescetto alle prese con due presunti testimoni da lui convocati. Costoro, anziché ricorrere alla collaudata strategia del silenzio, straparlano usando una valanga di proverbi, ad indicare che non avrebbero riferito nulla, anche se fossero stati a conoscenza di elementi utili alle indagini.
Lo sproloquio sostituisce il silenzio, il dire per non dire e per sottolineare che nulla si direbbe anche se si sapesse.

"Chi fa trenta non è detto che faccia trentuno"

"Non tutto può essere detto"

"Cosa di uno è cosa di nessuno, cosa di tre di tutto il mondo è"

"Ognuno rende conto della propria bisaccia"

"Chi non sa tacere non sa godere"

"Chi cerca le corna d'altri trova le proprie"

"La cosa cotta non ritorna cruda"

"Se ti feriscono le vacche, una ragione c'è"

"I balli di carnevale si piangono in quaresima"

"Chi male pensa peggio fa"

Il capitano Pescetto cade nel tranello tesogli e si lascia sfuggire anch'egli un proverbio:
"La giustizia acchiappa la lepre anche con il carro lento!"

I due interrogati continuano a sciorinare proverbi in risposta alle domande del capitano, incoraggiati dalla sua incauta compartecipazione.

"Rispettiamo i morti ma temiamo i vivi"

"Può accadere che anche l'erba fresca bruci"

"Chi non fa domande non sente bugie"



(1) Giorgio Todde, Lo stato delle anime, Nuoro, Il Maestrale, 2002
(Frassinelli, 2001)
capitolo 13 - pagg. 107-108-109

lunedì 7 aprile 2008

Meglio un morto in casa che un marchigiano fuori dalla porta.

Questo proverbio, non certo marchigiano, può essere assunto come emblema di quel tipo di proverbio che mette in risalto i presunti difetti di un popolo, quasi mai di quello di cui si fa parte.
Vicini o lontani che siano gli abitanti di altre nazioni, regioni, province, o addirittura località confinanti, forniscono spesso occasione, quasi sempre pretestuosa, di dileggio.
Questo aspetto si estende ben oltre il puro e semplice proverbio, coinvolge modi di dire che si diffondono in misura proporzionale alla gravità dell'ingiuria.
Qualche volta i proverbi sottolineano aspetti positivi, ma si tratta veramente di rarità, come mosche bianche.

Piemontesi falsi e cortesi

Il medico di Valenza, lunghe falde e poca scienza

La Spagna è una spugna

Uomo di Spagna ti fa sempre qualche magagna

Bando bolognese, dura trenta giorni meno un mese

Corsica, morsica

Genova, prende e non rende

Gente di confini o ladri o assassini

In Italia troppe feste, troppe teste, troppe tempeste

Napoletano largo di bocca e stretto di mano

Alcuni proverbi in lode:

La Lombardia è il giardino del mondo
Chi volta il culo a Milan lo volta al pan

Non per tutti i proverbi è possibile risalire alle origini che ne hanno determinato la nascita e i motivi della maggiore o minore diffusione nel tempo e nello spazio.
Del proverbio del titolo ho trovato una spiegazione convincente nella rete:
I marchigiani costituivano la numerosa schiera di esattori dello Stato della Chiesa, e quindi qualsiasi individuo in odore di "marchigianità" veniva sfuggito più della peste. Figuriamoci averlo fuori dalla porta per reclamare la riscossione di imposte alquanto esose.
Fuori dal periodo storico in cui è nato questo malevolo detto non ha più motivo di esistere, quindi se è lecito conservarne la memoria in quanto rispecchia un momento storico ben definito,
del tutto inappropriato sarebbe riproporlo al giorno d'oggi; ci troveremmo di fronte, se non proprio ad un abuso, ad un vero e proprio cattivo gusto.
Sono ben altri gli esosi esattori e ben altri i metodi di riscossione applicati al giorno d'oggi.
A tale proposito mi viene in mente una veloce barzelletta che mi hanno raccontato alcuni giorni orsono.

- In un negozio:
"Fermi tutti! Questa è una rapina!"
"Meno male! Pensavo che fossero gli agenti delle tasse"

domenica 23 marzo 2008

Pasqua



Non c'è Sabato Santo al mondo che la luna non sia nel tondo.

Gira rigira e datti da fare, l'inverno dura fino a Pasqua.

Pasqua, alta o bassa che sia, è sempre fiorita.



domenica 16 marzo 2008

L'uomo è cacciatore

Non tutti i proverbi reggono all'usura del tempo ed alle trasformazioni del costume, della visione e della concezione del mondo.
Se l'uomo non dominava realmente sulla donna nemmeno quando questo predominio era codificato da leggi e da pesanti condizionamenti a sfavore delle donne, figuriamoci dopo che si è ottenuta una quasi parità formale, in seguito alla quale la supremazia della donna sull'uomo è divenuta ormai incontrastata.
Destava meraviglia il fatto che le giustificazioni sulla eccessiva intraprendenza sentimentale-amatoria dei maschi veniva spesso dalle donne, che infierivano sulle donne che venivano sedotte piuttosto che sul seduttore, forse per mettere in risalto le proprie qualità morali, legate principalmente alla propria verginità o fedeltà coniugale.
Il proverbio in oggetto, ad esempio, viene pronunciato due volte in Mastro don Gesualdo, da una donna, la baronessa Rubiera, per giustificare il proprio figlio seduttore, riversando tutta la responsabilità su Bianca Trao.

"L'uomo è cacciatore, si sa! ..." Parte prima cap II

L'aggiunta di "si sa!" tende a codificare come assioma la colpa esclusiva della donna.

Procedimento analogo nei Malavoglia (cap X, 137, in cui il proverbio viene enunciato da una donna, donna Rosolina, a giustificare l'insistente corteggiamento di don Michele nei confronti della più piccola delle sorelle "Malavoglia".

Credereste che in pieno Ottocento, invece, c'era un giorno interamente "consacrato" alla caccia dell'uomo da parte della donna, e ciò non avveniva a Stoccolma, ma nella ben poco svedese Catania?
Ne riferisce Giovanni Verga nella novella "La coda del diavolo":
"A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c'è la festa di Sant'Agata, - gran veglione di cui tutta la città è il teatro - nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d'intrigare amici e conoscenti ... senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso. Questo si chiama il diritto di 'ntuppatedda.



A spiegare l'origine storica di tale usanza un saggio della Prof.ssa Carmelina Naselli (1894-1971): "Le donne nella festa di Sant'Agata a Catania, ossia Delle 'ntuppateddi" (1952).
Approfondendo il saggio della Naselli, il Prof. Carmelo Ciccia nel saggio "Il mondo popolare di Giovanni Verga ci fornisce una descrizione abbastanza dettagliata di tale usanza:
" ... 'intuppateddi (specie di chiocciole che hanno l'uscita tappata da un velo), traducibile in italiano con imbacuccate. Usanza per la quale le donne catanesi in occasione della festa di Sant'Agata (5 febbraio) si mascheravano lasciando visibile solo un occhio e andavano per le strade con facoltà di accompagnarsi in incognito a qualsiasi uomo gradito"

L'uomo da cacciatore a preda, con una sorprendente inversione dei ruoli.

Successivamente l'usanza, abbandonata a Catania, proseguì nel comune di Paternò, in occasione del Carnevale.
Molte presunte donne, si dice, erano in realtà omosex, provocando, a volte, una vera e propria "inversione" definitiva del malcapitato maschio cacciatore-cacciato.

lunedì 11 febbraio 2008

Equa diseguaglianza

La locuzione equa diseguaglianza fu adoperata dal socialista Giorgio Ruffolo in un forum sulla rivista “Rinascita”.
Con questo insolito ossimoro intendeva esprimere il suo proposito di conciliare lo sviluppo dell’economia e della società senza però creare diseguaglianze economiche e sociali che avrebbero determinato delle fratture insanabili all’interno del mondo del lavoro e della società intera, tali da creare dei veri e propri mondi incomunicabili.
Differenze di retribuzione si, quindi, ma non di portata tale da creare divisioni all’interno del mondo del lavoro dipendente, nella popolazione attiva e in quella priva di occupazione, per scelta o difficoltà di entrare nel mercato del lavoro, o per condizione anagrafica o impedimenti dovuti a condizioni precarie di salute.
Ruffolo sosteneva che non c’era peggiore diseguaglianza di quella che derivava da una indiscriminata uguaglianza, che metteva sullo stesso piano condizioni socio-economiche, capacità professionali, condizioni assai difformi di malessere e comunque di disagio.
Dare la medesima retribuzione per lavori assai differenti dal punto di vista qualitativo e di produttività, di differenti capacità, avrebbe secondo Ruffolo, rappresentato una palese forma di ingiustizia, secondo il principio che a ciascuno deve essere dato secondo le sue capacità. Le differenze di retribuzioni secondo le proprie capacità non devono però creare abissali distanze di condizioni economiche e sociali tali da generare due mondi antagonisti. Così devono esserci differentze di retribuzione tra lavori che richiedono modeste conoscenze e poca o alcuna formazione professionale e lavori che invece sono stati preceduti da anni di studio e di formazione post-scolastica.
Altrettanto ingiusto sarebbe far durare la permanenza al lavoro allo stesso modo per lavori particolarmente ed oltremodo usuranti nella stessa misura rispetto ad impieghi che lo sono molto meno. Si può a tal proposito fare riferimento al lavoro in fabbrica, con turni disagevoli, ma anche ad altri lavori particolarmente stressanti.
Non bisogna poi dimenticare il carico di famiglia: nulla di più ingiusto di una retribuzione uguale o con minime differenze tra chi ha carico numeroso di famiglia e chi non lo ha. L’introduzione degli assegni familiari ha risolto in minima parte il pesante squilibrio tra il reddito pro capite di una famiglia con prole inoccupata e quello ad esempio di due coniugi occupati senza prole. Non credo di esagerare nel sostenere che tra due coniugi occupati senza figli e una famiglia sorretta solo da uno stipendio con coniuge e due figli a carico, nonostante gli assegni familiari, esiste un abisso retributivo forse superiore a quello tra una presunta famiglia benestante rispetto ad una relativamente bisognosa. Quindi per ottenere quella equa diseguaglianza, caldeggiata da Ruffolo, occorre differenziare sostanzialmente i redditi, attraverso tagli fiscali o altri provvedimenti ad hoc, tra famiglie in base alle persone a carico.
Valorizzare quindi le capacità professionali senza mortificare le necessità familiari.
Rispetto al periodo nel quale Ruffolo sosteneva la sua tesi, le diseguaglianze dal punto di vista familiare si sono alquanto accorciate, determinando una grave ingiustizia sociale nelle capacità di spesa delle famiglie numerose.
Può sembrare paradossale ma una effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini può essere ottenuta solo con una oculata diseguaglianza, che dia a ciascun cittadino pari opportunità di crescita sociale e culturale.
Ho lasciato per ultima la questione territoriale. Per decenni si è giustamente parlato di Questione Meridionale, per le minori opportunità di lavoro e di sviluppo civile nel Mezzogiorno d’Italia rispetto al Centro e al Settentrione, distacco dovuto a cause storiche e ad una assai minore sensibilità delle classi dominanti e dirigenti versi i problemi del Sud nel nostro paese. Oggi si parla con insistenza di una Questione Settentrionale, come se il Meridione avesse in qualche modo risolto o accorciato le diseguaglianze con il resto del paese. Si deve piuttosto parlare di una Questione Italia, nella quale la divisione internazionale del lavoro ed una globalizzazione senza regole hanno causato un impoverimento diffuso del nostro paese, che ha prodotto una maggiore accentuazione nel divario tra classi ricche e classi povere, che hanno subito un impoverimento non soltanto in termini relativi rispetto alle classi ricche, ma anche in termini assoluti, dato il minor potere d’acquisto di salari e stipendi.
Nell’impoverimento diffuso maggiormente soffrono le famiglie che vivono in territori dove più alto è il costo della vita, quindi la terza via da percorrere per una differenza retributiva equa è quella territoriale.
La Confindustria sostiene che questo obiettivo può essere raggiunto valorizzando la contrattazione aziendale e svuotando o quasi quella di categoria.
L’imprenditore Pasquale Pistorio, ex vicepresidente di Confindustria, esprime efficacemente tale punto di vista: “Non ha senso che un posto di lavoro al Sud debba costare come al Nord quando il costo della vita è inferiore. I sindacati sbagliano ad opporsi alle misure per diminuire il costo del lavoro in nome di un’errata idea del principio di uguaglianza”. (1)
Il ragionamento mi sembra ineccepibile per quanto riguarda la sostanza, ma estremamente pericoloso nel metodo e, se realizzato nelle forme proposte, assai peggiore del male che si vuole curare.
Affidare totalmente, o quasi, alla contrattazione aziendale i rinnovi contrattuali, causerebbe una rovinosa caduta del potere contrattuale dei lavoratori, che avrebbero bisogno piuttosto di un poderoso allargamento del fronte contrattuale, coinvolgendo lavoratori all’interno dell’Unione Europea ed anche ad di fuori di essa, per meglio far valere i propri diritti, di fronte ad una "imprenditoria" mondiale aggressiva e scarsamente sensibile ai problemi di sopravvivenza dei lavoratori e dei popoli.
Non secondaria sarebbe la catalogazione in differenti fasce salariali di lavoratori che svolgono medesimi lavori. Quindi a mio modesto parere occorre distinguere nettamente la parte professionale da quella territoriale, ma occorre farlo mantenendo ed anzi rafforzando la contrattazione di categoria. Le zone territoriali nelle quali si dovrebbe dividere il territorio in base al costo della vita dovrebbe essere fatta dagli stessi lavoratori, con rilevazioni indipendenti da quelle fatte dall’ISTAT, quasi mai attendibili.
Quindi una equa diseguaglianza, oculatamente determinata, può essere l’unica via a realizzare quella effettiva uguaglianza da molti evocata, ma da troppi elusa.



(1) Giovanni Russo, Il futuro è a Catania. Inchiesta su un'industria d'avanguardia in un'antica città del Sud, Milano, Sperling & Kupfer, 1997
capitolo 9: Le tre regole d'oro - intervista a Pasquale Pistorio.

sabato 12 gennaio 2008

Proverbi del Mare

Da Agenda 1999 – Capitaneria di Porto – Guardia Costiera.

- Rosso di sera, buon tempo si spera.
- Cielo rosso di mattina, brutto tempo si avvicina.
- Se l'alba verde a te apparirà, da questo lato il vento arriverà.
- Chiaro orizzonte a nord, sole calante, promessa di bel tempo al navigante.
- Se a calma notte il mare brontola a riva, al largo, o marinar,
la barca va giuliva.
- Allor che il vento contro il sole gira, non ti fidar, perché torna forte e spira.
- Vento da nord propizio al marinaro, se l'orizzonte scorgi netto e chiaro.
- Nubi ramate immote, ciel coperto, tempesta ti annunzian di certo.
- Cielo a pecorelle, donna imbellettata non duran nemmeno una giornata.
- Stelle troppo scintillanti, vento forte a te davanti.
- Stelle moltissime in ciel filanti, di vento e pioggia son segni parlanti.
- Stelle ingrandite e luminose assai, annuncian cambiamento ai marinai.
- Ciel senza nubi, pallide stelle, al marinaio dicono procelle.
- Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare e non aver paura.
- Se lampeggia ma più tuona, il vento vien da dove suona.


Da Emanuele Celesia, Linguaggio e proverbi marinareschi, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2003

- Un uccello di mare ne vale due di bosco.
- Popolo marinaro, popolo libero.
- Il sapere ha un piede in terra e l'altro in mare.
- Quando la barca va, ogni cojon la para.
- Chi non teme, pericola.
- Per mare non ci stanno taverne.
- Sui pesci, mesci.
- Nuvolette al mare, acqua alla montagna.
- Cielo a pecorelle, acqua a catinelle.
- Chi si fida di greco, non ha il cervello seco.
- Mare, fuoco e femmina, tre male cose.
- Dal mare, sale: e dalla donna, male.
- Donna, cavallo e barca, son di chi li cavalca.
- Chi piglia l'anguilla per la coda e la donna per la parola,
può dire di non tenere nulla.
- Le done, i cani e 'l bacallà, perché i sia boni i ghe vol ben pestà.
- Donna iraconda, mar senza sponda.


Dai Malavoglia di Verga.

- Senza pilota barca non cammina. (I, 5)
- Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura. (Padron 'N. I, 14)
- Il sole oggi si coricò insaccato – acqua o vento. (Padron Cipolla – II, 15)
- Quando il sole si corica insaccato si aspetta il vento di ponente. (P. 'N. II, 16)
- Le acciughe sentono il grecale ventiquattro ore prima di arrivare. (P. 'N. II, 31)
- Il mare è amaro, ed il marinaio muore in mare. (Mena – V, 61 / P. 'Ntoni – VI, 73)
- Chi è nato pesce il mare l'aspetta. (Padron 'Ntoni – VI, 68)
- I pesci grossi stanno sott'acqua durante la maretta. (Coro – VII, 81)
- I pesci del mare son destinati a chi se l'ha da mangiare. (Barbara – IX, 122)
- Il buon pilota si conosce alle burrasche. (Padron 'Ntoni – X, 126 e XI, 159)
- Mare bianco, scirocco in campo. (Padron 'Ntoni – X, 129)
- Mare crespo, vento fresco. (Padron 'Ntoni – X, 130)
- Quando la luna è rossa fa vento, quando è chiara vuol dire sereno,
quando è pallida, pioverà (Padron 'Ntoni – X, 131)
- Acqua di cielo, e sardelle alle reti. (Padron 'Ntoni – X, 132)
- Chi ha roba in mare non ha nulla. (La Vespa – X, 133)
- Per menare il remo bisogna che le cinque dita della mano
s'aiutino l'un l'altro. (Padron 'Ntoni - X, 150)
- Il buon pilota si prova alle burrasche. (Padron 'Ntoni – XI, 159)
- Il pesce puzza dalla testa. (Don Franco lo speziale – XII, 174)
- Per un pescatore si perde la barca. (Padron 'Ntoni – XIII, 176).

Brani Musicali