“Il dialetto restringe la vita, la rimpicciolisce, la puerizza”
E a sostegno della sua tesi chiama in causa il grande critico letterario Francesco De Sanctis: “Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti” …
Ancora Savinio:
“Il dialetto è una delle espressioni più dirette dell’egoismo familiare, di quel "familismo" che è origine di tutto il male, di tutte le miserie che deturpano l’umanità” …
Inesorabile:
“Chi parla in dialetto vede uomini e cose in formato ridotto”
Incontentabile:
“Pure, la costoro lingua (dei veneziani, bontà sua non lo chiama dialetto) … fa pensare ad un pasto senza pane”
Ma hanno davvero sbagliato quei critici letterari che hanno fatto assurgere due poeti dialettali, il Porta ed il Belli, a grandi della letteratura italiana?
Sono davvero così puerili le commedie “Liolà”, “Il berretto a sonagli” “Pensaci Giacomino” pubblicate e rappresentate parecchie volte, originariamente in dialetto siciliano? E cosa ha spinto lo stesso Pirandello a tradurre in siciliano la commedia “La giara”, prima pubblicata in lingua italiana? E per quale bizzarria la Compagnia del Teatro Stabile di Catania ha rappresentato a Londra Liolà in dialetto siciliano, con l’indimenticato Turi Ferro protagonista?
E’ davvero un uomo in formato ridotto Turiddu Carnevale, “picciottu socialista” cantato dal poeta dialettale siciliano (scusate la monotonia) Ignazio Buttitta, nella struggente poesia “Lamentu in morti di Turiddu Carnevale” che richiama, e non in tono minore, la famosa poesia di Garcia Lorca “Alle cinque della sera”?
Dopo tante domande retoriche una poesia dello stesso Buttitta a difesa del dialetto: da "Io faccio il poeta", Milano, Feltrinelli, 1972
Un populu Un popolo
mittitulu a catina mettetelo in catene
attuppatici a vucca, tappategli la bocca,
è ancora libiru , è ancora libero,
Livatici u travagghiu Toglietegli il lavoro
u passaportu il passaporto
a tavula unni mancia la tavola dove mangia
u lettu unni dormi, il letto dove dorme,
è ancora riccu è ancora ricco
Un populu Un popolo
diventa poviru e servu diventa povero e servo,
quannu ci arrobbanu a lingua quando gli rubano la lingua
addutata di patri: avuta in dote dai padri:
è persu pi sempri. è perso per sempre.
Sono d’accordo con te. Infatti trovo la tesi di Savinio molto schematica, perciò del tutto inadatta ad affrontare temi e problemi complessi. Considero poi snobistica l’idea che il dialetto o anche lingue circoscritte, per la loro diffusione, a piccole aree trasmettano un mondo scarsamente valido sul piano morale-intellettuale. Contano “contenuto” e “fine” di lingua o dialetto, non la lingua in sé.
RispondiEliminaGramsci nelle “Lettere dal carcere” invitava i suoi parenti a lasciare che i bambini “succhiassero tutto il sardismo che volevano”. (Sardismo in senso culturale e linguistico, non politico). Poi avrebbero sempre potuto imparare non solo l’italiano ma anche (potendo studiare) latino, greco, francese, tedesco e russo. Di questo fu esempio vivente proprio lui: che pure si definì “triplice o quadruplice provinciale.”
L’americano d’origine Sioux William Least Heat-Moon, nel suo romanzo-rèportage “Strade blu” sostiene che la lingua degli indiani Navajos possiede un centinaio di termini tecnici per indicare parti del… motore dell’auto!
Per Bachisio Bandinu anche dialetti o comunque lingue minoritarie hanno valore “affettivo” e “cognitivo.” Vorrei infine ricordare che per molto tempo in Sardegna persone scarsamente secolarizzate, all’inizio forse lo stesso Ledda, lessero Omero… in sardo. Certo non era come leggerlo o citarlo in greco. Forse Savinio si sarebbe scandalizzato, ma pazienza. Ciao.